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ATLANTIDE
un mondo scomparso,
un'ipotesi per ritrovarlo
Il libro di Arecchi su Atlantide
propone la ripresa ed il completamento di indagini svolte intorno al 1920 da
archeologi e altri studiosi francesi e tedeschi. Il mito del "leggendario
paese" di Atlantide avvolge da oltre 2500 anni le origini delle nazioni
mediterranee e che risale a due testi del grande filosofo greco Platone.
L'Atlantide descritta da Platone era una società ben organizzata, ricca di
risorse agricole e materiali. Le indagini svolte nel libro portano a
ritenere che si trattasse di una cultura "pre-libica". I suoi abitanti,
originari della regione dell'Ahaggar (nel cuore dell'attuale deserto del
Sahara), si sarebbero stabiliti in una pianura che oggi è sommersa sotto le
acque del canale di Sicilia (e la capitale di quel Paese si sarebbe trovata
a circa 500 km a nord di Tripoli 150 km a sud-est dell'isola di Malta).
Atlantide si sarebbe confrontata a lungo con l'Egitto dei Faraoni e sarebbe
stata sommersa verso l'anno 1200 a.C., da un'immensa ondata di piena
provocata dalla tracimazione di un mare che si trovava a quell'epoca nel
bacino, oggi occupato dal Grand Erg orientale e dalla regione degli Shott,
tra l'Algeria e il sud della Tunisia. L'ondata, uscendo dall'attuale golfo
di Gabès, avrebbe travolto tutta quella civiltà, che può ben essere
considerata come una delle più importanti dell'antico Mediterraneo... e
tutto ciò che ne rimase sono: il racconto di Platone, alcune leggende,
alcune tracce nei bassorilievi dell'Antico Egitto e nei dipinti sahariani,
nel Tassili n'Ajjer, presso Djanet.
Il libro ci porta in un contesto
geografico completamente diverso dall'attuale, in cui il Mediterraneo era
diviso in due mari, al cui centro c'era l'Italia unita alla Sicilia e alla
Tunisia. Un'estesa pianura fertile tra Europa e Africa formava un "ponte"
dove, tra il 3000 e il 1200 a.C., si sarebbe sviluppata la civiltà di
Atlantide, in eterna lotta contro l'Egitto. Questa la teoria dell'Autore,
secondo il quale il continente scomparso si trovava nel Mediterraneo. Una
nuova ipotesi, dunque, per ritrovare l'Atlantide di Platone...
Immaginiamo di ritornare indietro
nel tempo, 3300 anni fa, intorno all’anno 1300 a.C. (ossia novemila mesi
prima di Solone, dalla cui narrazione il filosofo Platone trasse le proprie
informazioni su Atlantide).
Quello che oggi è il Mare Mediterraneo doveva essere a quel tempo distinto
in due mari, posti a quote diverse e privi di comunicazioni reciproche.
Ad ovest, il bacino costituito dal Mediterraneo occidentale e dal Tirreno
era - come oggi - in comunicazione con le acque dell’Oceano, attraverso lo
stretto dell’attuale Gibilterra, che si era aperto più di mille anni prima,
e le sue acque avevano ormai raggiunto un livello simile a quello odierno,
grazie all’apporto costante garantito dall’apertura di quella bocca di
comunicazione con le acque oceaniche.
Un secondo mare, ad est, andava dalla Piccola Sirte alla costa
siro-palestinese e comprendeva lo Ionio, il basso Adriatico e il Mar di
Candia (mentre il territorio Egeo, tutto emerso, costituiva una vasta
pianura costellata di rilievi montuosi di origine vulcanica). Esso era ben
separato dal primo, perché al posto dello stretto di Messina esisteva un
istmo roccioso e quello che oggi è il canale di Sicilia era allora una
fertile pianura, irrigata da fiumi e protetta da alte montagne, che scendeva
dolcemente verso le sponde del mare inferiore.
Le acque del Mediterraneo orientale dovevano trovarsi ad una quota di circa
300 m sotto quella odierna. Faremo riferimento a questa quota come “livello
zero” per misurare le altitudini relative.
All’estremo occidente del Mediterraneo orientale, non lontano da dove ora si
erge l’isola di Malta, due strette imboccature davano accesso ad un grande
golfo, profondo oltre mille metri. Intorno a quel golfo, protetto alla sua
imboccatura da una vasta isola, era sorta una civiltà fiorente, fondata da
una stirpe libica che era forse scesa sino a qui dalle alte montagne del
sud.
Chi fosse provenuto da oriente, da Creta o dall’Egitto, avrebbe visto una
costa rocciosa, piuttosto ripida, nella quale si aprivano due stretti, ai
lati di un’ampia isola, con un’estensione compresa tra 11.000 e 17.000 km2,
che si ergeva sino ad una collina di circa 150 m. I due stretti a nord e ad
ovest dell’isola misuravano tra i 15 e i 30 km. Poteva però essere anche una
penisola, con un solo stretto alla sua estremità nord, quale unico accesso
al grande golfo.
Possiamo identificare in questo sistema di stretti le “colonne d’Eracle”
dell’antica mitologia (e una delle due “colonne” appare identificabile nel
massiccio roccioso dell’attuale isola di Malta).
Le alture più elevate di quel sistema emergono ancora dal mare del canale di
Sicilia e sono: Pantelleria, le isole Pelagie (Lampedusa e Linosa), le isole
maltesi.
Lungo la sponda settentrionale del golfo si ergeva un sistema di rilievi, un
po’ più elevato di 500 m, che dominava il panorama (le attuali isole
maltesi); le coste meridionali erano un po’ più dolci, ma un lungo e piatto
rilievo si elevava vicino al mare, sino ad oltre 400 m dal pelo delle onde,
e di fronte ad esso, non lontano, un’alta isola sorgeva dalle acque del
bacino (le attuali isole di Lampedusa - la prima - e di Linosa, quella
staccata dalla costa). In direzione nord-ovest, in fondo al grande golfo, si
stagliava un imponente picco vulcanico, alto più di 1100 m dalle acque del
mare. Per usare un chiaro riferimento attuale, si trattava di quella che
oggi conosciamo come l’isola di Pantelleria. Dietro di essa, a nord, la
costa saliva a delimitare l’orizzonte, per un’altezza di almeno 300 m. Al di
là vi era l’altro mare, che riceveva ormai da secoli l’apporto delle acque
dall’Oceano, e da lì
“era possibile raggiungere le altre isole per coloro che allora compivano le
traversate e dalle isole a tutto il continente opposto, che si trovava
intorno a quel vero mare ( pontos)... Infatti tutto quanto è compreso
nei limiti dell'imboccatura di cui ho parlato appare come un porto
caratterizzato da una stretta entrata: quell'altro mare, invece, puoi
effettivamente chiamarlo mare e quella terra che interamente lo circonda
puoi veramente e assai giustamente chiamarla continente.” (Platone)
Quel mare, che era da secoli in
collegamento con le acque dell’Oceano tramite la bocca di Gibilterra, era
molto vicino a debordare al di qua della sua sponda e a dilagare verso il
golfo ed il Mediterraneo orientale, posti ad una quota più bassa. Questa era
la vera maledizione pendente sul capo del popolo (Atlanti-Tjehenu) che
abitava quelle terre, ma essi forse erano convinti che la situazione di
precario equilibrio potesse durare in eterno, così come essi l’avevano
sempre vissuta.
Ad ovest del “porto” o golfo che abbiamo descritto si stendeva un’ampia,
fertile pianura irrigua, che ritorniamo a descrivere con le parole usate da
Platone. Essa riceveva da nord le acque della Medjerda, che oggi scendono al
mare non lontano da Tunisi, mentre da ovest poteva essere abbondantemente
irrigata grazie alle acque provenienti dall’ampio “mare” interno, le cui
acque dovevano essere piuttosto dolci. Quell’estensione di pianura
corrisponde, per misure e caratteristiche fisico-climatiche, al territorio
descritto da Platone: la distanza dalla chiusura del golfo, verso sud, sino
alle sponde del Mediterraneo occidentale, è di 540 km (tremila stadi), e
quella dalla costa del golfo sino ai rilievi alle spalle della pianura, che
delimitavano il mare interno, di 360 km (duemila stadi).
Il filosofo narra che gli abitanti di Atlantide coltivavano - fra l’altro -
datteri e banane, in mezzo ad una fauna in cui spiccava la presenza di
elefanti.
Dalla costa, la pianura saliva dolcemente verso ovest, in direzione di una
cresta di colli di origine vulcanica, ricchi di giacimenti metalliferi,
dalla struttura morfologica in prevalenza tufacea. Al di là della cresta, a
circa 450 km di distanza dalle acque del Mediterraneo, si stendeva un enorme
bacino d’acqua: un vero e proprio mare, la cui superficie era posta ad una
quota di circa 650 m superiore a quella del Mediterraneo. Quel mare
raccoglieva le acque di un vasto bacino pluviale, che andava dall’attuale
massiccio degli Aurès, a nord, a sud sino ai massicci del Tassili e dell’Ahaggar
(la “montagna Atlante”, secondo il testo di Erodoto), dal quale scendeva il
fiume che oggi ha il nome di Wed Igharghar. Le sue acque, a loro volta,
alimentavano un emissario che scendeva verso est, al Mediterraneo: un fiume
perenne, che irrigava le terre della vasta pianura.
Quando l’acqua toccava il massimo livello quel mare poteva raggiungere una
profondità di circa 350-380 m ed aveva una forma quasi circolare, con una
superficie di oltre 280.000 km2, paragonabile per estensione a
quella dell’intera penisola italiana. Nel fondo del suo bacino oggi c’è un
grande sedimento di sabbia, il Grand Erg orientale (Igharghar): uno
dei deserti sabbiosi più estesi al mondo. Si può suppone che a quel grande
mare fosse attribuito in epoca antica il nome primitivo di “oceano (pelagos)
Atlantico”. Per comodità, visto che il mito antico pose in quella regione il
Giardino delle Esperidi e che ancora oggi il suo fondo disseccato si chiama
“Chott el Djerid” (palude disseccata del giardino, del palmeto), lo
chiameremo “il mare dei Giardini”.
A sud-ovest del mare dei Giardini, a una distanza di altri 500 km, si ergeva
verso il cielo il grande massiccio roccioso dell’Atlante... si tratta della
montagna oggi nota col nome berbero di Ahaggar, “nobile”. Ricorriamo alla
descrizione offertane da Erodoto:
“È stretto e circolare da ogni parte ed alto — a quanto si dice — tanto che
le sue vette non si possono scorgere: giammai infatti le abbandonano le
nubi, né d’estate né d’inverno. Gli indigeni dicono che sia una colonna
della volta celeste”.
Le cime più alte di quel massiccio, nella montagna oggi chiamata Atakor,
erano quasi 2800 m più in alto del livello delle acque dell’oceano (ossia
3400 al di sopra del livello del Mediterraneo di allora). Alle pendici di
quella montagna – racconta Erodoto – viveva un tempo il popolo degli
Atlanti:
“Da questo monte gli abitanti del paese hanno tratto il nome, si chiamano
infatti Atlanti. Si dice che essi non si nutrano di alcun essere animato e
che non abbiano sogni.
Due percorsi principali, tradizionalmente, conducono dalle sponde del
Mediterraneo verso le montagne dell’Ahaggar, e corrono l’uno lungo la sponda
ovest dell’antico Mare dei Giardini (è la strada che conduce alle oasi di El
Goléa e di Ghardaia, “alti luoghi” del turismo sahariano, i cui wed – quando
portano acqua – puntano ancora in direzione del grande mare disseccato),
l’altro lungo la sua sponda orientale, ed è la grande “strada dei carri”,
cosparsa di dipinti e graffiti rupestri, descritta nelle sue tappe e oasi
dal racconto di Erodoto, percorsa a suo tempo anche dalle truppe romane che
penetrarono l’Africa sino al bacino del Niger. La sponda nord era rocciosa,
dello stesso tipo di rocce che si frantumarono nel disastro che provocò la
fine di Atlantide: sono le gole e i canyon che solcano il versante sud delle
montagne degli Aurès e che, in prossimità di Bou Saada, vanno a sfociare
sulle prime sabbie dell’antico grande mare. Il fondo disseccato di quel
grande mare è occupato ancora oggi da un impenetrabile deserto di sabbia. Ad
ovest, all’interno del primitivo bacino, corre ancora da sud a nord una
falda d’acqua abbastanza ricca da fornire vita e nutrimento alle oasi del
Souf: in questa regione è sorta El Wed e ad una quota più in alta, verso
l’antica sponda occidentale, si trovano Wargla e i pozzi petroliferi di
Hassi Messaoud.
In quella regione viveva un popolo libico o “pre-libico”, prospero per
agricoltura e commerci, dotato di una propria struttura di stati
“confederati” in una sorta di impero. Quegli uomini erano grandi costruttori
e grandi navigatori e usavano una scrittura, presumibilmente simile a quella
libico-berbera; nei geroglifici egizi erano chiamato Tjehenu e nei testi
greci Atlantói. Diversi popoli erano loro confederati o vassalli (e
ne ritroveremo taluni nell’elenco dei popoli del mare che sciamarono verso
l’Egitto, dopo la catastrofe finale).
Se vogliamo provare a riunire gli indizi offerti dai vari autori dell’epoca
classica, quel popolo poteva essere giunto alle coste del Mediterraneo dalla
grande montagna dell’interno, detta Atlante, al di là del mare “sospeso”,
con una migrazione di oltre 2000 km. Almeno sin dal 3000 a.C. gli Atlanti
erano capaci di costruire con grandi blocchi di pietra città fortificate e
vivevano in costante confronto con l’impero dei Faraoni, in quel lungo
confronto che taluni studiosi hanno chiamato “la guerra del bronzo”. Fra i
prodotti di vitale importanza per la diffusione della tecnologia, essi
detenevano il monopolio di importanti giacimenti di ossidiana, un materiale
litico (vetro vulcanico) molto pregiato per la produzione di lame e di altri
oggetti d’uso. Fra le principali fonti dell’ossidiana nel Mediterraneo, si
collocano inftti Pantelleria l’alto picco vulcanico, posto proprio al fondo
del loro grande golfo) e le isole Eolie, che dovettero far parte dei
territori sotto loro controllo.
Le miniere di rame nativo (oréi-chalkos) si trovavano sulle colline
alle spalle della pianura atlantide, ma una grande innovazione tecnologica
fu costituita dall’uso del bronzo, lega tra rame e stagno, con migliori
caratteristiche di durezza e di resistenza.
L’obiettivo strategico per ottenere il monopolio del bronzo era il controllo
delle miniere di stagno, di cui l’Africa è priva. I Faraoni sostennero per
questo la lunga guerra contro gli Hittiti e conquistarono il controllo delle
miniere dell’Anatolia. Gli Atlanti dovettero rivolgersi altroveò il loro
stagno proveniva dal sud-ovest della penisola iberica, e forse dalla
Cornovaglia. In effetti, la rete dei loro rapporti commerciali potrebbe
essere stata connessa con la diffusione delle “culture megalitiche” in
Europa e nel Mediterraneo occidentale.
Secondo il racconto sviluppato da Platone nei suoi Dialoghi, la
società atlantide era strutturata in un sistema statale (una confederazione
di piccole monarchie, a quanto pare di poter interpretare il racconto del
filosofo), che praticava l’agricoltura, costruiva città, fondeva i metalli
(oro, rame e stagno) e aveva scoperto il modo di legarli per ottenere il
bronzo, conosceva la scrittura, aveva praticato un espansionismo di
conquiste estese sino alla Tirrenia (attuali Lazio e Toscana), combatteva da
2000 anni contro i signori dell’Egitto ed era entrata in conflitto con
popolazioni pelasgiche che vivevano sulle coste della pianura egea... i suoi
combattenti sono stati raffigurati in bassorilievi egizi e nei dipinti
rupestri delle piste sahariane, usavano carri da guerra e da caccia trainati
da cavalli, e Platone si sofferma a lungo su una serie di usanze di quel
popolo sulle quali, oggi, non possiamo esprimere molti dubbi...
Secondo Platone, i sacerdoti di Sais avevaro raccontato a Solone che grandi
siccità, mai viste prima, avevano calcinato la terra intera, immensi incendi
avevano imperversato sulle contrade e distrutto le foreste, fulmini erano
caduti dal cielo, terremoti avevano scosso il pianeta, provocando grandi e
considerevoli distruzioni, disseccando sorgenti e fiumi. Alle siccità
sarebbero sopravvenute le inondazioni ed enormi trombe d’acqua si sarebbero
riversate sulla terra, inghiottendo - tra l’altro - l’isola degli Atlanti.
Quei cataclismi sembravano segnare una fase di transizione, il passaggio da
un periodo con un clima più caldo ad un’altra fase, con condizioni di vita
più dure.
Corrispondono tali descrizioni a mutamenti climatici che potrebbero essere
realmente avvenuti nel sec. XIII a.C.?
Secondo altri documenti contemporanei (le iscrizioni egizie di Medinet Habu,
l’Esodo biblico), le catastrofi descritte avvennero veramente. Fu proprio
verso il sec. XIII a.C. che la Libia (Nordafrica) conobbe il culmine di una
grande fase di desertificazione. Un’iscrizione di Karnak precisa: “I Libici
vengono in Egitto per cercare di sopravvivere”. Anche il mito di Fetonte può
ricordare una serie di drammatiche siccità che colpì il Mediterraneo,
“all’origine della storia dei Greci”.
Tutto quel mondo che abbiamo descritto finì nello spazio di ventiquattr’ore,
in un giorno di un anno compreso tra il 1235 e il 1220 a.C.. Una serie di
violenti terremoti incrinò seriamente la consistenza degli sbarramenti
rocciosi (fatti di tufo e quindi abbastanza friabili, forse già indeboliti
da infiltrazioni d’acqua) e aprì alcune brecce, che ben presto cedettero di
fronte alla pressione delle acque dei due grandi bacini posti alle quote
superiori: il mare sahariano e il Mediterraneo occidentale, costantemente
rifornito dalle acque dell’Oceano. Le acque si fecero strada con impeto in
canaloni larghi decine di chilometri, con ondate di piena veramente immani,
neppure lontanamente paragonabili a quella del Vajont, che è drammaticamente
rimasta nella memoria degli italiani. Pur calcolando per difetto il volume
del mare sahariano, abbiamo detto che esso in antico conteneva almeno 50.000
chilometri cubi d’acqua, sino ad una quota massima di 650 m sul livello del
Mediterraneo orientale. Per determinare l’energia potenziale di quell’ondata,
potremmo schematicamente identificare il baricentro della massa d’acqua
versata a + 350 m. Ne sarebbe derivato l’impatto di un’energia equivalente
almeno a 17,5 x 1015 kgm = 17 x 1016 Joule. Supponiamo
pure che il livello dell’acqua nell’invaso originale potesse essere già
sceso di molto, all’epoca della catastrofe, a causa dei sopravvenuti
cambiamenti climatici, ma certo un’ingente l’onda d’urto si poté rovesciare
sulla pianura sottostante. Per distruggere e spazzar via completamente
Atlantide, sarebbe bastata un’ondata costituita da meno di un decimo del
volume del mare superiore, riversata dal dislivello allora esistente con il
bassopiano. L’enorme cascata andò a colpire con un impatto diretto l’isola
con la capitale di Atlantide, che si trovava ad una distanza di circa 600 km
dallo sbarramento.
Ancora oggi, a chi guardi con attenzione su una carta geografica o su una
foto satellitare la regione del Grand Erg orientale, del Golfo di Gabès e
della Piccola Sirte, l’antica catastrofe traspare “tra le righe”: il Golfo
di Gabès appare come un vero e proprio “imbuto” e non è difficile
immaginarsi l’enorme massa d’acqua che vi si scaricò, per riversarsi, con
grandi quantità con fango e sabbia, nei bassifondi antistanti, che un tempo
dovevano costituire una fertile pianura. Dobbiamo ancora spiegarci, però,
perché mai quella zona sia poi rimasta, nei secoli, annegata sotto le acque.
La stessa serie di terremoti ruppe altri diaframmi rocciosi: innanzitutto
quello che delimitava a nord la grande pianura in declivio e che costeggiava
un mare a un livello più basso, ma di gran lunga più pericoloso: perché quel
mare era ormai collegato agli Oceani, e da loro riceveva un afflusso d’acqua
costante. Quando anche quelle acque cominciarono a riversarsi sulla pianura
di Atlantide, la storia di quella civiltà fu definitivamente sommersa sotto
centinaia di metri di acqua salata. I due Mediterranei si fusero in un solo
mare. Fu definitivamente sommersa la pianura dell’Egeo, costellata di
rilievi montuosi, che rimasero trasformati in arcipelaghi. Per alcuni
secoli, gli Achei e gli altri antenati delle culture mediterranee videro
l’acqua che saliva, copriva i loro porti, le città costiere e portava via i
loro migliori terreni coltivabili... Alcuni di loro tentarono di conquistare
l’unico rifugio possibile, la grande pianura che s’innalzava lungo il corso
del grande fiume Nilo, al riparo dalla salita del mare... ma furono respinti
o assorbiti dalla grande civiltà che già, lungo quelle sponde, aveva
costruito un impero, destinato a durare nei secoli e a lasciare di sé
un’impronta immortale...
Tutto ciò rimase impresso nei miti di origine della stirpe greca, col
diluvio di Deucalione e Pirra, con le grandi epopee di Eracle e degli
Argonauti. Il quadro del cataclisma appare completo se immaginiamo che la
stessa serie di scosse telluriche provocasse il cedimento del diaframma
(istmo roccioso) che collegava l’Italia alla Sicilia, con la conseguente
apertura dello stretto di Messina.
L’impeto della corrente scavò un solco profondo, un letto tortuoso al centro
del canale di Sicilia, intaccando e disgregando le rocce di minore
resistenza, e andò a biforcarsi, con violenza, contro le rocce più
consistenti dell’imponente picco vulcanico di Pantelleria. Il risultato dei
cataclismi di quel periodo dovette essere un flusso di corrente verso est,
dalla portata molto maggiore di quella che, attraverso Gibilterra,
alimentava il livello del Mediterraneo; un flusso che durò a lungo, il cui
effetto fu probabilmente rafforzato da quello proveniente dallo stretto di
Messina. Si può calcolare che l’innalzamento delle acque nel Mediterraneo
sino al livello attuale abbia comunque impiegato alcuni secoli. Le acque
fluivano come una veloce corrente tra le sabbie e i fanghi che si erano
riversati nel golfo della Piccola Sirte dal grande mare sahariano, e
salivano di livello sino ai Dardanelli, alla costa siriana, al Delta del
Nilo, coprivano tutti i porti dell’antica cultura minoica, trasformavano
Ilio in una città marinara, e spingevano sino a lì i conquistatori Achei,
ben decisi a impadronirsi dei poteri e delle ricchezze che il nuovo mare
rendeva loro accessibili. Altri di loro partirono verso le rovine sommerse
dell’antica Atlantide e incontrarono altre vicissitudini (gli Argonauti
nella regione delle Esperidi... ). Finirono sommersi tutti gli stabilimenti
portuali allora esistenti nell’area del Mediterraneo orientale. Finì
sott’acqua ciò che rimaneva della civiltà di Thera, già fortemente colpita
dalla gigantesca esplosione vulcanica di due secoli prima; finirono sotto’acqua
i templi maltesi, scavati nella grande roccia sacra che era stata, sino ad
allora, la “sentinella” di Atlantide. La roccaforte maltese ci appare come
una delle due primitive “colonne d’Eracle”, e forse la sua collocazione in
questo contesto può aiutare a gettare nuova luce sulla ricchezza di
insediamenti sacri, di costruzioni ipogee e di ritrovamenti sottomarini che
l’attuale isola e i suoi fondali offrono ancora oggi.
I fanghi, le correnti e i bassi fondali della Piccola Sirte e del Canale di
Sicilia resero a lungo difficile la navigazione, come è riferito da Platone
e da altri autori classici (incluse le narrazioni del mito degli Argonauti).
Se è credibile quanto abbiamo esposto, Atlantide non si è mai mossa, non è
sprofondata in nessun abisso oceanico. È stata sconvolta da immani ondate,
le sue rovine sono state ricoperte da decine di metri di fango e sabbia e
poi da alcune centinaia di metri d’acqua.
La distruzione del centro economico-culturale di Atlantide può apparire
collegata alla “misteriosa” interruzione delle attività di costruzione di
complessi megalitici, che intorno a quell’epoca si verificò in tutta l’area
del Mediterraneo occidentale: nella penisola iberica, così come in Sardegna
e in Corsica e – potremmo aggiungere – sino alle isole britanniche. Era
scomparso un importante polo di ricchezza e di riferimento, un paese di
grandi navigatori, che commerciavano con i paesi più occidentali per
importare lo stagno, essenziale a fondere il bronzo, e in cambio esportavano
ossidiana ed altri prodotti mediterranei.
I popoli ad esso collegati, per i quali era venuto a mancare il principale
partner economico, si trovarono così di colpo proiettati in una condizione
di “barbarie”, o quanto meno nella nuova esigenza di basarsi su un regime di
sussistenza alimentare.
Lo svuotamento completo del grande mare africano, avviato dall’improvvisa
catastrofe, fu il colpo di grazia per la desertificazione del Nord Africa.
Il fenomeno proseguì con l’inaridirsi del clima e col disseccarsi dei corsi
d’acqua che alimentavano il bacino dell’Igharghar, e durò più d’un
millennio: il livello scese per l’accresciuta evaporazione e gli uomini
dell’antichità classica conobbero un grande lago Tritonide, con un fiume
Tritone, che scendeva dalle pendici dell’Ahaggar nel letto dell’attuale Wed
Igharghar, la cui lunghezza complessiva raggiunse i 2000 km, secondo i
calcoli effettuati da Butavand.
Assumono così un tragico colore le vicende di quella terra di Atlantide che,
secondo il racconto platonico, era stata “assegnata a Poseidone”:
letteralmente, in quanto era posta al di sotto del livello del mare (nel
significato che oggi assume una tale espressione).
Si potrebbe tentare di individuare i diversi livelli costieri sommersi,
corrispondenti alla progressione delle acque dal momento della catastrofe di
Atlantide sino al completo riempimento del mare Mediterraneo alla quota
attuale. Ma, naturalmente, questo oggi appare solo come un sogno utopistico.
Un’importante conferma, relativa agli antichi livelli marini, potrebbe
provenire dalla ricerca in profondità degli antichi porti minoici, che
potrebbero essere identificabili nei fondali intorno all’isola di Creta in
modo certo meno complesso e macchinoso di una ricerca che puntasse
direttamente al ritrovamento di resti nell’area dell’antica Atlantide.
Se ora proveremo a rileggere i Dialoghi di Platone e a confrontarli
con la “nostra” mappa di Atlantide, avremo la netta sensazione che le cose
corrispondano e vadano al loro posto. Le acque del mare salivano
gradualmente e allagavano le fertili pianure dell’Egeo, lasciandone emergere
solo le cime dei rilievi, che si trasformavano in isole, sempre più
piccole... ci renderemo conto che i “novemila anni” di Platone devono
davvero corrispondere a un periodo lungo, sì, ma “a misura” della stirpe
degli Achei e dei Greci, dopo che essi si insediarono nel bacino del
Mediterraneo.
“Accadute dunque molte e grandi inondazioni per novemila anni (tanti ne sono
corsi da quel tempo sino ad ora), la terra, che in quei tempi e avvenimenti
scendeva dalle alture, non si ammassò come altrove in monticelli degni di
menzione, ma sempre scorrendo scomparve nel profondo del mare: pertanto,
come avviene nelle piccole isole, sono rimaste in confronto di quelle
d’allora queste ossa quasi di corpo infermo, essendo colata via la terra
grassa e molle e rimasto solo il corpo magro della terra. Ma allora ch’era
intatta, aveva come monti alte colline, e le pianure ora dette di Felleo
erano piene di terra grassa, e sui monti v’era molta selva, di cui ancora
restano segni manifesti. Dei monti ve ne sono ora che porgono nutrimento
soltanto alle api, ma non è moltissimo tempo che vi furono tagliati alberi
per coprire i più grandi edifici, e questi tetti ancora sussistono. V’erano
anche molte alte piante coltivate e vasti pascoli per il bestiame. Ogni anno
si raccoglieva l’acqua del cielo, e non si disperdeva, come ora, quella che
dalla secca terra fluisce nel mare, ma la terra, ricevutane molta, la
conservava nel suo seno, e la riportava nelle cavità argillose, e dalle
alture la diffondeva nelle valli, formando in ogni luogo ampi gorghi di
fonti e di fiumi, dei quali le antiche sorgenti sono rimaste ancora come
sacri indizi, che attestano la verità delle mie parole”.
La fine del centro di Atlantide, che basava la propria potenza sull’egemonia
commerciale e culturale nel bacino del Mediterraneo occidentale e del
Nord-ovest Africano (diremmo oggi, con un termine arabo, Maghreb),
dovette causare diverse gravi conseguenze, di cui è rimasta traccia nei
“misteri” di quelle aree:
- Per lungo tempo crollò il commercio dello stagno dalla penisola iberica e
dalla Cornovaglia, sino a che non fu rimesso in auge dai commercianti fenici
e cartaginesi. L’Egitto, infatti, era soddisfatto del monopolio sul bronzo
ottenuto grazie alle guerre contro gli Hittiti, e la fine di Atlantide
costituì per i Faraoni un insperato ausilio all’abolizione di una pericolosa
concorrenza sulla produzione della preziosa lega (benché l’arrivo nell’area
del Mediterraneo degli Achei, dotati di armi di ferro, avesse
considerevolmente ridotto l’importanza strategica del bronzo).
- Scomparvero “misteriosamente” i costruttori di megaliti, in tutto l’arco
del Mediterraneo occidentale. Una volta diminuite le risorse economiche, la
popolazione locale era ricaduta in un regime di povertà e di sussistenza
alimentare, che non permetteva certo la concezione e la realizzazione di
grandi opere.
- Le successive occupazioni delle grandi isole (Sardegna e Corsica) da parte
dei popoli del mare fecero sprofondare sempre più nel mistero le origini di
quel “popolo dei megaliti” che li aveva preceduti.
- Un piccolo gruppo di sopravvissuti del popolo Tjehenu conservò forse il
ricordo di una parte degli antichi miti. La mitica regina Tin Hinan, sepolta
nel massiccio dell’Ahaggar, nel cuore del Sahara, ne può costituire una
traccia, almeno nella permanenza del nome, così come l’alfabeto tifinagh,
usato nelle più antiche lingue libico-berbere. Certamente, però, l’entità e
le modalità della catastrofe sopra descritta furono tali da sterminare
l’intero gruppo dirigente, che doveva abitare nella città capitale e nella
vasta e fertile pianura, devastate dall’onda di tracimazione del “mare dei
Giardini”.
Un’obiezione che mi è capitato di
ricevere più e più volte, nel corso dello svolgimento di questa indagine, è
stata: “ ma se tutta la storia era così evidente, perché nessuno l’ha mai
scritta prima?” La risposta è molto semplice: “È proprio perché qualcuno
l’ha scritta, che possiamo raccontare questa storia. L’ha scritta Platone, e
con grande precisione; ne hanno scritte delle parti importanti Eudosso di
Cnido, Diodoro Siculo ed altri autori antichi, ne hanno scritte e
raffigurate altre parti i cronisti dell’Antico Egitto, con una precisione
che sarebbe invidiabile da parte di molti cronisti moderni... si trattava di
raccogliere una serie di “pezzi sparsi”, metterli insieme e partire sulle
tracce di un disastro i cui superstiti non sono rimasti per raccontarlo...
un “Vajont” dei tempi antichi, avvenuto in uno spazio e in un tempo
incredibilmente vicini a noi, molto più di quanto ogni nostra fantasia non
ci consentisse di immaginare.
Dobbiamo essere grati all’attenzione di Platone che ha tramandato con una
tale ricchezza di particolari il resoconto di Solone su Atlantide: una
memoria che sarebbe potuta scomparire, sepolta nell’oblio, come tanti altri
eventi dimenticati, nel corso della storia dell’uomo.
Il libro è prodotto dall'Associazione
Culturale Liutprand, ma viene distribuito in tutta Italia dalle
distribuzioni Mimesis-PDE. Si trova nelle migliori librerie e può essere
richiesto anche direttamente all'Associazione Culturale Liutprand.
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