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lI 26
dicembre 1890 moriva a Napoli Heinrich Schliemann, lo scopritore di Troia.
La sua fine è avvolta dal mistero più fitto. Questo libro ne ripercorre la
vicenda. Ammirato nel mondo intero per i suoi scavi a Troia e a Micene e per
le scoperte del tesoro di Priamo e dell'oro di Agamennone, Schliemann era
anche un frenetico ricercatori di tesori. Questa sua ossessione lo trascinò
in giro per il mondo mettendolo in contatto con personaggi illustri, tra i
quali Garibaldi, Mazzini e Cavour, ma lo spinse anche su strade insidiose,
per esempio verso ambienti della malavita italiana. A Napoli, dove ritornò
per vendere l'ultimo tesoro trovato a Troia, lo attendeva una morte violenta
e misteriosa. Una fine annunciata.
La sua è una di quelle leggende
universali, una di quelle grandi storie che tutti sembrano conoscere, fin da
bambini: Heinrich Schliemann, il povero ragazzo tedesco diventato ricco
grazie «ad un’attività commerciale brillantemente condotta», l’appassionato
lettore di Omero che decise di esplorare i luoghi descritti in quei poemi
finendo per scoprire Troia con i suoi segreti e (soprattutto) i suoi tesori,
l’archeologo dalla vita avventurosa che le major cinematografiche di
Hollywood da sempre sognano di portare sullo schermo senza però mai
riuscirci. Quell’eroe è però da sempre sotto processo. In pratica da quando,
nel maggio 1873, annunciò di aver trovato il «tesoro di Priamo» (o meglio di
Troia), un tesoro apparentemente senza pace: prima donato al Museo nazionale
di Berlino, poi trafugato in Urss dall’Armata sovietica, oggi in gran parte
«diviso» tra il Pushkin di Mosca e l’Hermitage di San Pietroburgo (mentre
più nulla si sa, ad esempio, della celebre «camera d’ambra» rubata dai
nazisti a Leningrado e mai più ritrovata). Mario La Ferla (per quasi trent’anni
inviato speciale dell’Espresso) torna ora a riaprire l’immaginario processo
con un nuovo libro-inchiesta che si propone, anche grazie al contributo di
un eminente archeologo come Louis Godart, «di frugare negli angoli bui della
vita di uno degli uomini più celebrati e discussi del mondo, nel tentativo
di dissipare le nebbie oscure che da oltre un secolo avvolgono la sua fine».
I dubbi sono davvero molti: perché (ad esempio) «re, principi, Kaiser
tedeschi, primi ministri, eminenti scienziati lo coccolavano tanto»; perché
«nessuno ha mai osato sfidarlo sulle verità imposte di Troia, Micene e
Tirinto»; perché «riuscì a tenere sempre in scacco i governi di Turchia,
Russia, Germania, Italia, Francia e Gran Bretagna promettendo di volta in
volta la consegna del tesoro di Priamo»; quali interessi, oltre
all’archeologia, lo portavano così spesso a Napoli e in Sicilia? La
sentenza, fin dalle prime righe, sembra comunque segnata: colpevole. E con
lui sono colpevoli anche tutti gli studiosi e i gli scrittori «che lo hanno
accusato di cose ignobili, ma che allo stesso tempo hanno sempre evitato
ogni tentativo di scoprire tutta la verità».
Come Sindona - Schliemann, nato il 6 gennaio 1822 a
Neubukov nel Ducato del Meclemburgo, muore (circondato da donne, gloria,
ricchezze) al Grand Hotel di Napoli, il 26 dicembre 1890. I biografi
ufficiali parlano subito di «morte naturale» (infiammazione acuta agli
orecchi oppure otite purulenta), ma La Ferla è categorico: «La sua morte
assomiglia in maniera sorprendente e singolare a quella di molti
protagonisti delle storie più recenti di brigantaggio politico e finanziario
del nostro Paese». Schliemann sarebbe stato insomma avvelenato dalla
«malavita organizzata italiana» (camorra o mafia, il dubbio non è del tutto
chiarito) con cui aveva fatto affari lucrosi per vendere in giro per
l’Europa (in modo fraudolento) i tesori scoperti. Secondo La Ferla, quel
dicembre, l’archeologo era a Napoli per vendere il (mai ritrovato, ndr )
«secondo tesoro di Troia». Una morte, dunque, per un affare andato male, una
morte che potrebbe ricordare, per motivazioni e mandanti, quelle di
Pisciotta e di Sindona. Anche perché i suoi ultimi pasti, per curare il mal
d’orecchi che lo affligeva da quando era arrivato a Napoli, furono
stranamente a base solo di «brodo e caffè».
Garibaldi e massoneria - «L’archeologo tedesco - spiega La
Ferla - aveva conosciuto Garibaldi, Mazzini, Cavour nei salotti londinesi
quando era ospite di Lord Gladstone, potente primo ministro della regina
Vittoria, che lo introdusse nella società aristocratica, facendolo
finalmente sentire qualcuno». Una coincidenza che dimostra i suoi stretti
rapporti con quella massoneria «che all’epoca dettava le regole della
politica in Europa a quelli che preparavano la grande operazione che porterà
all’Unità d’Italia». Fin qui niente di strano. La novità è un’altra: sarebbe
stato proprio l’eroe dei due mondi a indicargli i tesori nascosti nell’isola
di Mozia (il generale avrebbe avuto modo di scoprirli dopo lo sbarco dei
Mille), che l’archeologo sarebbe poi andato a cercare «laddove i fenici li
avevano abbandonati fuggendo dall’assalto dei greci».
Scoperta falsa - È questa l’accusa forse più grave, almeno
scientificamente.
Si tratta di un’accusa più volte formulata che La Ferla arricchisce però di
nuove prove, grazie prima di tutto all’apporto di Louis Godart: archeologo
considerato tra i massimi studiosi delle civiltà egee, ordinario di
filologia all’Università Federico II di Napoli, autore con Gianni Cervetti
de «L’oro di Troia» (Baldini Castoldi Dalai) nonché consigliere del
presidente Ciampi per il patrimonio artistico. Secondo Godart è stato in
realtà Frank Calvert, «giovin signore inglese di ottima e ricca famiglia» a
scoprire Troia, iniziando le ricerche nelle terre che la sua famiglia
possedeva alle pendici della collina di Hissarlik.
Lo stesso Calvert consigliò Schliemann di unirsi a lui nello scavo di Troia,
ma Schliemann lo avrebbe poi estromesso dalle ricerche (per ingordigia di
denaro? per fama di gloria?), scoprendo infine la città di Troia «divisa in
nove strati sovrapposti». Si chiede però La Ferla: «Come mai Calvert non si
permise mai di rendergli conto della sua incredibile estromissione?».
Sarà stata forse colpa ancora una volta della massoneria «che dirigeva tutti
i centri di potere occulto legati a doppio filo con re e imperatori», quella
stessa massoneria che secondo il giornalista e scrittore sarebbe quantomeno
responsabile anche delle omissioni che da tempo costellano le biografie
ufficiali di Heinrich Schliemann?
Stefano Bucci
Corriere della Sera
Lunedì 23 Gennaio 2006
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