Il Graal e San Nicola di Bari
Ci provò anche Martin Mystère a risolvere l'enigma, quando venne a Bari in cerca del Santo Graal. Era il 1995, e l'"investigatore dell'impossibile" tentò di decifrare il criptogramma dell'altare di San Nicola: 624 lettere incise tutt'intorno ai lati di una lamina argentea, posta sull'altare, anch'esso d'argento, del Santo. Ovviamente, l'"eroe di cartone" della scuderia Bonelli applicò tutti i metodi di decifrazione noti, dal Sistema bifido di Felix de la Stelle all'antica Tabula recta di Tritemio, fino al "pazzesco codice di Blaise de Vigenère"... Giunse alla conclusione che non si trattava di un messaggio cifrato, ma di una piantina: era, a suo dire, il perimetro di una stanza segreta, in cui si custodiva il Santo Graal. Naturalmente, tutta fantasia. Naturalmente, una tale soluzione era ancora una volta il segnale di un fallimento. Il celebre criptogramma di San Nicola restava indecifrabile. D'altronde, gli stessi padri domenicani, in collaborazione con la Banca Nazionale del Lavoro, avevano indetto un concorso nel 1987 (nel IX centenario della traslazione delle ossa di San Nicola) offrendo cinque milioni di lire a chi fosse stato capace di svelare il senso della misteriosa iscrizione. Invano. Né si può dar credito ai nostrani "cercatori di misteri", che di tanto in tanto sostengono di esserne venuti a capo. Ancora di recente V. D., in un volume "gnostico" [...] torna a suggerire la sua lettura: «Arca testa tecta a cripta in Mira et gradale a sacel(lo) in (ihs) galva(ni) sepulcr(o)». Come si ricavi ciò, è arduo comprenderlo. Lo stesso autore ne è conscio, perché sembra voler mettere le mani avanti: «Sappiamo bene che qualcuno non condividerà la "soluzione" da noi ottenuta definendola "pura immaginazione" o "fervida fantasia", ma tutto ciò fa parte del gioco».
Ora però un
ricercatore del CNR di Bari, Aurelio Ciancio,
sembra abbia trovato il bandolo della matassa.
E, con ogni verosimiglianza, è riuscito a
gettar luce sul contenuto del messaggio. Ciò
che viene fuori è sconvolgente e beffardo. La
prima metà del testo infatti dice:
«Resta
da sapere se il servo arriva ora e in armi da
me, se tu / dietro all'uorme sue o se, pare, a
letto a menar o iaià per un po' e / co' lo re
'l sorriso inoltrare alle sue persone, in
prosperit / à ti renda tra feste a
Napoli...». Come si vede, una
missiva cifrata che non ha nulla a che fare con
il sacro. Ma andiamo per ordine. Come Aurelio
Ciancio è giunto a questa soluzione? Tentando anche lui, come Martin Mystère, i vari codici conosciuti, si è accorto di alcune frequenti ripetizioni che riguardavano coppie di lettere (d'altronde i lati verticali dell'iscrizione sono tutti formati da gruppi di 4 lettere). Per farla breve: il mittente ed il ricevente usavano un codice che assomigliava molto a quello del gioco degli scacchi: cavallo in AG, regina in EF, torre in CB... Praticamente, e banalizzando, ambedue i personaggi avevano una loro tabella a scacchiera, dove ogni casella corrispondeva ad una lettera. E scrivendo nel messaggio cifrato, ad esempio, GS, nelle coordinate della G e della S appariva una casella con la lettera in chiaro R... Questa scacchiera o, se volete, tabella da battaglia navale, mancava della lettera Z. Quindi era composta da 400 caselle, dove le medesime lettere dell'alfabeto venivano anche ripetute più volte, in modo tale da rendere ancora più indecifrabile ad estranei il messaggio. Ed in effetti lo sarebbe ancora oggi, se le ripetizioni non avessero contribuito a dare una mano: cosicché, selezionando le frequenze maggiori e saggiandone le possibilità, molte parole sono infine emerse. E, tuttavia, nei punti in cui l'antico mittente ha variato l'uso delle coordinate, specie nella seconda parte del criptogramma, il messaggio appare blindato, perchè le lettere/caselle, impiegate con minori frequenze, risultano inconfrontabili. La seconda parte resta alquanto lacunosa. Omettiamola per ora, dicendo solo che l'ultima frase dell'iscrizione è sicuramente «se è anche su, annotila qui». Che cosa si ricava dunque da questo messaggio? Le ipotesi possono essere varie: da quella sessuale (adombrata dal passo «a letto a menar o' iaià») a quella più politica della sicurezza personale. Chi scrive si sente minacciato e per questo attende l'arrivo di un servo "in armi", quasi una guardia del corpo in vista di un pericolo imminente, ovvero si attende una sanzione (e allora quel «servo in armi» preluderebbe ad un provvedimento a suo carico). Il destinatario è evidentemente implicato nell'affare, ed il mittente gli chiede se verrà dopo il servo, o se resterà a Napoli a trastullarsi tra le feste della corte... Nella seconda parte, evidentemente la missiva si chiariva maggiormente, benché, essendo un'informativa tra due persone, il messaggio, anche se decifrato, doveva omettere i fatti di per sè noti ai due interlocutori. Certo, era un bel modo intrigante quello di inviare vassoi d'argento o cofanetti con messaggi cifrati per evitare eventuali spie: il dono stesso farebbe propendere verso l'idea che il ricevente fosse una dama. Ma com'è finito, allora, quest'oggetto profano sull'altare di un santo? è difficile dare una risposta sicura al quesito, perché la documentazione dell'archivio di San Nicola relativa agli anni della forgiatura dell'altare argenteo (il fascicolo degli anni 1682-1691) è scomparsa. E questo è un ulteriore mistero: probabilmente qualche geloso cultore dell'enigmatico criptogramma ha deciso di arrivare a capo della soluzione e di impedirla ad altri. A chi voglia sapere la storia dell'Altare di San Nicola, proponiamola lettura del volume di F. L. Bibbo (Levante Editori, 1987, cui ci riferiamo).
Quello che è certo è
che nel 1682 il capitolo nicolaiano, con il
priore Alessandro Pallavicino, decide di rifare
l'altare che copre le sante e miracolose spoglie
del vescovo di Mira, perché il precedente è
«vecchio
e all'antica» (era stato donato
nel 1319 da Uros
II
Militin re di Serbia, e confezionato dagli orafi
baresi Rogerio de Invidia e Roberto di
Barletta). Perciò, i canonici ritengono bene di
rottamarlo e mandare il metallo a Napoli, presso
l'atélier di Domenico Marinelli ed Antonio Avitabile. Ma
poiché il materiale non sembrava sufficiente,
si decretò il 20 maggio 1682 di aggiungervi
«molte
lampade vecchie» e
"vasi
d'argento" insieme a molti
oggetti d'oro,
"riposti
in una cassa, che si conserva dalli custodi di
detto sagro altare, et non fanno mostra, ne
ornato alcuno...». Insomma
tutto fu racimolato per essere riciclato nel
nuovo altare, anche gli oggetti d'oro e di
argento donati al santo e non di culto...
Tuttavia la materia prima risultò eccessiva, se
nel 1693 la Basilica intentò un processo agli
«heredi»
dei due orafi napoletani
«per
aver ritenuto varie suppellettili per la nuova
fusione dell'altare».
Con ogni probabilità, i due argentieri partenopei, in modo
levantino, non hanno fuso tutto il metallo per
riforgiarlo. Qualche pezzo di valore, magari già
finemente cesellato, è stato inserito nella
nuova opera con una logica di reimpiego già ben
nota nelle nostre chiese romaniche. E il nostro
"vassoio" si prestava di certo a
questo riuso (che agevolava il lavoro degli
artefici), non solo grazie al bell’ornato
floreale, ma anche al mistero dell’iscrizione
(sarebbe interessante poter osservare il lato
nascosto della piastra, visto che l’altare si
appresta a un nuovo restauro). A comprovare
questa ipotesi, ci sono le listine d’argento
che sono state applicate per occupare lo spazio
vuoto lasciato dal "vassoio".
Naturalmente a scanso di equivoci, qualcuno gli
orafi o i canonici di San Nicola volle
aggiungere al criptogramma l’iscrizione
leggibile: «Magnificus Dominici Marinelli
preditti all’altare FF.MDCLXXXIV»
("Il Magnifico fece fare l’altare del
predetto Domenico Marinelli 1684"), facendo
riferimento al cartiglio posto in base
all’altare con inciso il committente, gli
orafi e la data. Insomma, la sorte ha
giocato un tiro mancino a San Nicola? La
novellistica popolare ci raffigura spesso il
santo patrono di Bari nelle vesti del burlone,
specie quando tenzona con il diavolo, beffandolo
generalmente con scherzi e tranelli. Ma questa
volta e non sarebbe l’unica è stato il
diavolo ad averla vinta. E però, si sa, San
Nicola era spiritoso e sapeva sorriderne, se
veniva gabbato.
Intervista
Aurelio
Ciancio è il responsabile della sezione di Bari
dell’Istituto per la protezione delle Piante
del CNR. Per dimostrare la fondatezza della sua
decifrazione, esibisce delle tabelle statistiche
e ricerche: il percorso della sua scoperta.
Come è giunto
all’interpretazione?
«L’esperienza
con la statistica mi ha fornito una via
d’accesso alla decifrazione. La statistica può
essere considerata un linguaggio universale
nella scienza. La frequenza di alcuni digrammi
ripetuti mi ha innanzitutto permesso di
identificare le vocali. Il resto è risultato da
ulteriori deduzioni. Ma ciò che mi ha aiutato
è stato il metodo basato sulla riproducibilità
delle osservazioni. Ogni verifica inizia proprio
qui».
È una
integrazione originale con un settore di ricerca
abbastanza lontano…
«È
proprio così, combinare esperienze anche
lontane può davvero portare a risultati
sorprendenti. Oggi si cerca, anche nel CNR, una
maggiore integrazione fra diverse
specializzazioni scientifiche. Pensi ad esempio
ai risultati che si ottengono dalla combinazione
fra biologia molecolare ed archeologia, o a
discipline emergenti come la bioinformatica. Per
non parlare delle applicazioni e delle ricadute
della ricerca di base, che spesso si sfruttano
in settori molto diversi da quelli
d’origine».
E nel caso del
nostro crittogramma?
«Analizzare
la sequenza del DNA di un batterio sconosciuto o
di una stringa di testo cifrato non sono poi
cose tanto lontane. Per esempio. Il matematico
russo Markov propose negli anni Venti un metodo
statistico per analizzare sequenze di testo o di
lettere casuali. A quell’epoca non si
conosceva il DNA, ma oggi questo test viene
impiegato con successo proprio nell’analisi
delle sequenze gnomiche. Non è servito per il
crittogramma dell’altare, ma l’esempio
spiega bene questo tripodi sinergie».
Dobbiamo
pensare quindi a ricerche sempre meno
specializzate?
«La
specializzazione resta importante, perché è
attorno ad essa che si costruisce il sapere. La
produzione scientifica ha poi i suoi costi e
sacrifici, e formare dei ricercatori e degli
esperti, che sono un patrimonio per il Paese,
richiede tempo e pazienza. Piuttosto penserei ad
istituti aperti, con una maggiore facilità nel
flusso trasversale d’informazioni, di attività
e di esperienze».
Resta da
sapere se il caso favorisca sempre la mente
preparata, come diceva Pasteur…
«Questo
è scontato. Il fattore individuale rimane un
requisito indispensabile».
Da "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 7 settembre 2003 |