L' ENIGMA DELLO YETI, ELUSIVO ABITATORE DELLE NEVI ETERNE Prof. Francesco Lamendola per Misteria.org
In Occidente è noto al grande pubblico come "l'abominevole uomo delle nevi", ma nella regione himalayana, ove le montagne stesse - a cominciare dall'Everest-Chomolungma - sono considerate esseri viventi, è considerato con estremo rispetto e timore reverenziale. In Occidente si sono organizzate numerose spedizioni e si sono versati fiumi d'inchiostro per tentare di stabilirne l'effettiva esistenza, ma ai piedi delle "montagne degli dei" sono in pochi a dubitarne: la sua esistenza è accettata con la stessa naturalezza e con lo stesso grado di evidenza delle altre creature che popolano da sempre quei luoghi arcani, pervasi da una intensa e antichissima spiritualità. I criptozoologi si confrontano con le più svariate ipotesi scientifiche per assegnarlo a questa o quella specie di mammiferi, dall'orso al leopardo delle nevi; ma quella più intrigante è che lo yeti costituisca un ramo collaterale della nostra stessa specie, un discendente dei gigantopitechi rimasto poi isolato, o regredito, nelle alte valli del Brahamaputra e del Gange. Forse vi si era ritirato all'epoca delle glaciazioni e poi, minacciato dall'avanzata invadente della specie umana, ha finito per rifugiarvisi senza speranza di uscirne mai più. Per gli indigeni di quelle regioni, invece, è un essere dotato di strani e sconcertanti poteri, una creatura che può essere benevola o malevola ma che, in ogni caso, non può essere offesa o perseguitata impunemente, neanche a scopo di ricerca. In altre parole, è un essere che sta a mezza via fra lo spirito e l'animale, quindi - simbolicamente - un punto di congiunzione fra il sensibile e il sovrasensibile, fra il mondo terreno e il mondo celeste. Forse non tutti sanno che esistono alcune 'varianti' dell'uomo delle nevi sia nelle regioni vicine del Turkestan cinese, della Mongolia e dell'Asia centrale propriamente detta, sia nella zona montuosa occidentale del Nord America, ove è noto agli indigeni col nome di "sasquatch" ed è stato persino filmato (sebbene l'autenticità della pellicola sia contestata); le tribù costiere fra la Columbia Britannica e la California settentrionale lo hanno inserito nel loro Pantheon totemico. Afferma lo scrittore Nigel Nicholson nel bellissimo volume Himalaya (Milano, Momdadori, 1978, pp. 72-76): "Molto s'è parlato i occidente - sebbene pochi vorrebbero averlo in salotto - dello Yeti o «Abominevole Uomo delle Nevi». Robert Fleming jr., il più autorevole zoologo del nepal, asimila gran parte delle storie dello Yeti alle favole dell'Orco, inventate per spaventare i bambini. Un cacciatore sherpa di sua conoscenza, che ha battuto le montagne per quarant'anni, non ne ha mai visto uno. - Tuttavia - conclude Fleming - qualcosa d'inesplicabile c'è -. Più categorico fu il nostro portatore: - Solo dei vecchi hanno visto uno Yeti - dichiarò, facendomi pensare ai racconti fantasiosi di vegliardi che, a furia di vantarsi accanto al fuoco d'un incontro fatto in gioventù, finiscono per crederci. Tuttavia, secondo l'antropologo F. C. Haimendorf, «a quasi tutti gli sherpa è capitato di vedere uno Yeti, e sui muri dei templi e dei monasteri le pitture ne presentano due tipi principali, uno che assomiglia a un orso e l'altro a una grande scimmia - corrispondenti ai due tipi di cui si ammette generalmente l'esistenza. Negli inverni più rigidi, essi scendono nelle valli a saccheggiare le provviste di patate degli sherpa, e qualche volta il loro bestiame.» poco dopo la mia partenza dall'Himalaya, si annunciò da Katmandu che una guardiano di yak, nella regione dell'Everest, era stata stordita da uno Yeti che le aveva ucciso cinque bestie torcendo loro le corna. "Dei due tipi di Yeti, il più piccolo si nutre di carne umana, l'altro preferisce lo yak. Lo zoologo americano J. A. McNeely, che si trovava ancora nel Nepal in cerca dello Yeti durante il mio soggiorno, ha pubblicato una descrizione dettagliata del tipo più piccolo mettendo insieme tutte le descrizioni di testimoni oculari: «È una creatura tozza, d'aspetto scimmiesco, alta da 1,50 a 1,65 metri, ricoperta di pelo corto e ruvido, bruno rossiccio o bruno grigiastro, più lungo sulle spalle. La testa è grossa, appuntita alla sommità, con sutura sagittale pronunciata. Le orecchie sono piccole e aderenti al capo; la faccia è glabra e piuttosto appiattita, la bocca grande, con dentatura forte ma senza canini sviluppati. Le lunghe braccia pendono fino alle ginocchia. Normalmente, lo Yeti cammina eretto, con passo strascicato; talvolta si mette a quattro zampe per correre o scalare le rocce. I suoi grandi piedi hanno due grosse dita prensili e tre più piccole. È privo di coda.» "Anche l'etnologo austriaco R. N. Wojkowitz, che ha vissuto tre anni nel Sikkim e nel Tibet, si è servito di testimonianze oculari per tracciare un ritratto non meno vivido dello Yeti più grande. Misura, a quanto dicono, da 2,10 a 2,25 m in postura eretta, le lunghe braccia e il corpo possente sono coperti di pelo bruno scuro; la testa ovale finisce a punta e la faccia è scimmiesca, con peli molto radi. «Teme il fuoco - scrive Wojkowitz - ma, malgrado la sua forza considerevole, gli abitanti meno superstiziosi dell'Himalaya vedono in lui una creatura inoffensiva, che attaccherebbe un uomo solo se ferito. A detta dei cacciatori della regione, il nome di 'Uomo delle Nevi' che gli è stato dato è doppiamente falso, perché non si tratta d'un uomo e non vive nella zona delle nevi. Il suo habitat è, invece, il folto impenetrabile delle più alte foreste himalayane. Di giorno dorme nel suo ricovero, che lascia solo a notte fonda. Il suo approssimarsi si riconosce al rumore di rami spezzati e da una specie di fischio che emette… Quale motivo lo spingerebbe a intraprendere delle spedizioni senza dubbio estremamente faticose nell'inospitale regione delle nevi? La spiegazione degli autoctoni sembra molto plausibile: lo Yeti ha una specie di predilezione per una specie di muschio salato che si trova sulle rocce moreniche; è quando lo cerca che lascia sulla neve le sue impronte caratteristiche. Soddisfatto il suo bisogno di sale, torna nella foresta.» "Sarebbe facile attribuire queste testimonianze a superstizioni o al fascino del fantastico. Ma altri elementi esistono, più difficili da spiegare. Impronte d'animali non identificati sono state rilevate e fotografate più volte da alpinisti orientali e occidentali. La testimonianza più sconcertante è forse quella che uno dei pionieri dell'esplorazione himalayana, sir Eric Shipton, ha trovato sul ghiacciaio Menlung durante una ricognizione dell'Everest nel 1951. Il dr. Michael Ward, alpinista inglese che accompagnava Shipton, riferisce quest'incidente: «Dovevamo trovarci a 5.500-5.800 m d'altezza, e stavamo avvicinandoci alla parte inferiore del ghiacciaio Menlung. Vedemmo delle impronte, qualcuna molto netta, altre piuttosto confuse. A giudicare dal numero, sembravano lasciate da più d'un animale. Si tenevano più o meno al centro del ghiacciaio, e le seguimmo per circa 400 metri, poi deviavano verso una morena laterale e si perdevano in un pianoro erboso.» " A giudicare dalla profondità, le tracce dovevano provenire da creature che pesavano almeno 100 chili ciascuna. Misuravano da 30 a 35 cm. di lunghezza e circa 15 cm. di larghezza. «L'impronta che abbiamo fotografato - precisa Ward - mostra nettamente il disegno di cinque dita, il secondo più grande, come nel piede umano. Il mignolo è appena rilevato. Il resto del piede pare molto simile a quello dell'uomo, ma più largo. Nel luogo in cui l'animale aveva attraversato un piccolo crepaccio, si poteva vedere l'affossamento prodotto dalle dita toccando il suolo dopo il salto, e anche - ma è impossibile essere precisi su questo punto, delle tracce di unghie.» "Secondo un'ipotesi affascinante, lo Yeti potrebbe essere imparentato con il Gigantopithecus, androide gigante, noto dai fossili reperiti delle sue mandibole e dei denti, che visse nella Cina meridionale e nell'India circa mezzo milione d'anni fa, quando l'Himalaya era ancora in formazione e il nuovo genere Homo in fase evolutiva. Ricacciato sempre più in alto dall'uomo, già padrone del fuoco e delle armi primitive, il Gigantopithecus avrebbe cercato e trovato rifugio nelle montagne che si stavano formando. "Ammettendone l'esistenza, non sembra però che questa creaturasia sopravvissuta nell'Himalaya occidentale e nel Karakorum. I nativi che ho interpellato non ne hanno mai sentito parlare. Mancano in queste regioni anche parecchie specie di animali diffuse dal Nepal alla Birmania. Né nel Kashmir né più a ovest si trovano il panda, il sambur, il porcospino senza cresta e l'arctonice o tasso maiale maggiore (Arctonyx collaris); e quei curiosi ruminanti simili alle capre, che sono il goral grigio (Naemorhedus goral) e il tar (Hemitragus jemlahicus), con corna brevi e piegate all'indietro, non si spingono più a ovest del Kashmir. Là si trovano inece delle specie meglio adattate alla vita sulle montagne brulle: il cervo del Kashmir, l'ibex, uno stambecco con le corna a forma di scimitarra (Capra sibirica), la pecira di marco Polo (Ovis ammon poli) e il markhor. Più a sud, sull'altopiano del Tibet, vivono l'asino selvatico (Equus hemionus), il baral o pseudopecora (Pseudovis nahoor), il leopardo delle nevi e lo yak."
Alcuni credono che la notizia dell'esistenza di un essere umanoide delle nevi risalga a non molto più d'un secolo fa, quando - alla fine del XIX secolo - furono notate le sue impronte sulla neve fresca delle montagne himalayane. Fu il maggiore A. L. Waddell che, nel 1899, durante una battuta di caccia sulle pendici dell'Himalaya, scoprì delle orme simili a quelle di un ominide che salivano un ghiacciaio prima di scomparire. "Nel 1899 - scrive Daniel Taylor-Ide nel suo libro Sulle orme dello Yeti (Casale Monferrato, Piemme ed., 2000, p. 25)- lo yeti attraversò le nevi ed entrò nella coscienza dell'Occidente". Da poco era stata pubblicata L'origine dell'uomo di Charles Darwin, e quelle impronte parevano la testimonianza vivente del famoso anello mancante, l'essere intermedio fra l'uomo e la scimmia che gli evoluzionisti avevano ipotizzato, ma non trovato nelle testimonianze fossili, e di cui andavano affannosamente alla ricerca (e lo sono tuttora). La realtà, tuttavia, è che la credenza nell'esistenza dello Yeti è antichissima, poiché la troviamo attestata da dizionari medici cinesi e da trattati farmacologici tibetani di parecchi secoli fa, con tanto di raffigurazioni che coincidono esattamente - guarda caso - con le descrizioni dei recenti avvistamenti oculari. La carne dello yeti - scriveva un erudito mongolo alla fine dell'Ottocento - può essere mangiata per trattare le malattie mentali e la sua bile è un rimedio efficace contro l'itterizia. Verso la metà del Novecento l'antropologo russo Poršnev condusse una vasta campagna di ricerca e raccolse centinaia di testimonianze, arrivando a rompere il muro di incredulità degli ambienti scientifici dell'Unione Sovietica. Egli formulò la prima teoria completa e biologicamente 'corretta' intorno allo Yeti: esso sarebbe null'altro che il discendente rinselvatichito dell'Uomo di Neanderthal, respinto sulle alte valli dell'Asia Centrale dall'avanzata trionfante dell'Uomo di Cro-Magnon. Tra tutte quelle da lui raccolte, la testimonianza probabilmente più impressionante è quella rilasciata da un colonnello medico dell'esercito sovietico che nel 1941 si trovava nel distretto montano del Daghestan, sul Caucaso, in piena seconda guerra mondiale (e che testimonierebbe la diffusione molto più ampia dell'Uomo delle nevi, almeno nella sua versione 'minore', quella del cosiddetto Almasti). Riportiamo il racconto dell'ufficiale sovietico così come fu raccolto e pubblicato da Poršnev a nel 1958, quindi a distanza di diciassette anni dai fatti narrati (da un articolo di Viviano Domenici apparso sul Corriere della Sera il 26 gennaio 1988): "Ho ancora oggi davanti agli occhi l'immagine dell'uomo (…). Davanti a noi stava un essere, di sesso maschile, nudo, a piedi scalzi. Si trattava indiscutibilmente di un uomo, in quanto aveva tutte le forme umane. Ma sia sul petto che sulla schiena e sulle spalle egli era tutto ricoperto da una peluria lanosa di color bruno scuro (è da notarsi che tutti gli abitanti locali hanno i capelli neri). Questo pelame ricordava quello dell'orso, ed era lungo dai due ai tre centimetri. Al di sotto del petto, il pelo si faceva più sottile e morbido. Aveva le mani tozze, poco pelose, e le palme delle mani e dei piedi completamente prive di peli. Per contro dalla testa gli cadevano dei capelli lunghissimi, che gli giungevano fin sulle spalle e in parte gli coprivano pure la fronte. Al tatto, i capelli apparivano molto ruvidi. Non aveva né barba né baffi, su tutto il volto era cosparsa una lanugine finissima, intorno alla bocca aveva dei peli poco lunghi e soffici. L'uomo stava perfettamente ritto, con le braccia pendenti. Aveva una statura superiore alla media, circa 180 centimetri. Era molto pesante, largo di spalle e muscoloso. Sembrava un atleta, con la cassa toracica sviluppatissima, spinta in fuori. Sulle mani aveva delle dita molto grosse e forti, di una misura superiore a quella normale. Nell'insieme era considerevolmente più grosso degli abitanti locali. La forma del suo viso era ovale, Aveva un grande naso. Non si notavano sul volto dei tratti scimmieschi, ma il suo colorito era straordinariamente scuro, assolutamente non umano. Oltre a ciò, come ho detto, esso era ricoperto da una lieve peluria. Le sopracciglia erano molto fitte e, sotto a queste, degli occhi molto infossati. Il colore degli occhi era anch'esso scuro, e le pupille dilatate. Aveva lo sguardo inespressivo, spento, assente, uno sguardo animalesco. Del resto tutto il suo insieme dava l'impressione di un animale. Se ne stava, guardando fisso in un punto, battendo le palpebre raramente, sena far niente. (…) Tutti i tentativi di provocare in lui delle reazioni vocali o alimentari restarono senza successo. (…) Devo dire che allora non potei formulare alcun giudizio definito circa la natura di questo essere."
Uno degli studi migliori e più completi esistenti sullo Yeti in lingua italiana è quello del giornalista milanese Carlo Graffigna. Pubblicato nel 1962 dall'editore Feltrinelli col titolo Lo Yeti. Storia e mito dell'uomo delle nevi, è stato ripubblicato, con numerose aggiunte e modifiche, nel 1999 dal Centro Documentazione Alpina di Torino, col titolo Lo Yeti. Un mito intramontabile. Graffigna non si sbilancia più di tanto circa l'esistenza e la reale natura dello Yeti; in compenso riporta una nutrita documentazione di discussioni, libri, articoli, discussioni scientifiche e non, citando i pareri di famosi alpinisti come sir Edmund Hillary (il conquistatore dell'Everest) e Reinhold Messner (che sostiene di aver visto due creature corrispondenti allo Yeti) e di viaggiatori e scrittori come l'inglwaw Bruce Chatwin, che è stato un autore cult fra i giovani occidentali, specialmente negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Riporta inoltre una ricca bibliografia, merito non ultimo della sua diligente fatica. Una delle avventure più drammatiche riportate nel libro di Graffigna è quella che avrebbe avuto per protagonisti due ingegneri norvegesi che, nel 1948, non solo avrebbero incontrato faccia a faccia uno Yeti, ma avrebbero avuto con lui uno scontro cruento e che per poco non era costato la vita a uno di essi. Bisogna peraltro osservare che esistono dei margini d'incertezza intorno alla credibilità dell'intera vicenda, che è stata raccontata solo quattro anni dopo lo svolgersi dei fatti, nel 1952, da Aage Thorberg, uno dei due tecnici, in un resoconto intitolato Ho incontrato l'uomo delle nevi. Ma ecco come Graffigna riporta il drammatico episodio (pp. 71-74 de Yeti. Un mito intramontabile, cit.): "Nell'estate del 1948 l'ingegnere norvegese Jan Frostis entrava nell'ospedale di Darjeeling per farsi curare i postumi infettivi del morso di uno yeti. La sua spalla recava ancora la cicatrice di una vasta lacerazione e per molti giorni, durante un'avventurosa e penosa marcia di ripiegamento, egli aveva lottato con la morte, trasportato in barella da un collega. da due funzionari indù, da una coppia di sherpa e da dieci portatori, tutti i membri, insomma, della piccola spedizione che, a scopo scientifico, aveva affrontato i ghiacciai che fanno corona al mastodontico Kanchenjunga. "Laureati all'Università di Oslo, Jan Frostis e Aage Thorberg erano stati incaricati dal governo di Nuova Delhi di compiere una missione esplorativa dalle parti dello Zemu - una distesa di ghiaccio non nuova alla leggenda e alla cronaca dell'uomo delle nevi - per accertare se negli strati geologici della zona comparissero tracce di sali d'uranio o di altri minerali pregiati. "Con mentalità nordica, i due stesero un preciso programma di sondaggi e di ricerche che coinvolgesse, a raggiera, una vasta superficie attorno al campo base piazzato a quasi 5.000 metri nei pressi del Green Lake. Sotto quelle tende, i sedici uomini del gruppo passarono una notte da lupi, fra il 10 e l'11 giugno, fra l'imperversare di una bufera di estrema violenza. Il mattino rivelò un mondo di un candore immacolato, avvolto in un silenzio ovattato e irreale, quasi pauroso dopo lo strepito del vento e l'ululare della tormenta. Ma, proprio quel mondo immerso come in una pausa del tempo, rivelò subito la presenza di una vita sconosciuta e misteriosa, anzi di due. Tutto attorno al campo, la neve fresca era calpestata, solcata da un paio di piste parallele, come se due uomini a piedi nudi avessero camminato da quelle parti verso l'alba quando la nevicata stava per cessare. Quanto a dimensioni, entrambe le piste rivelavano orme di circa 30 centimetri di lunghezza per 15 di larghezza. Diversa era invece la profondità dei calchi, che in uno appariva molto più superficiale, come se fra i due esseri ci fosse una notevole differenza di peso. Senza dimenticare i sali d'uranio, Frost e Thorberg decisero di dedicare almeno un po' d'attenzione a un fenomeno perlomeno strano in una zona così desolata. "Dopo un'altra bufera che imperversò per tre giorni consecutivi, sul nuovo strato di neve ricomparvero le misteriose tracce della favolosa creatura. "Ed ecco i due ingegneri norvegesi abbandonare le ricerche geologiche e porsi all'inseguimento, muniti di sci e di carabine automatiche. Li accompagnano i due sherpa e l'indù Brahmaputra Biharo. Battere la pista non è difficile: le impronte sono chiarissime nella neve fresca e sono visibili per un lungo tratto sui pendii della montagna. Lo yeti si dirigeva verso sud-ovest e la sua meta più prossima sembrava proprio il valico di Zemu, una forcella a quota 5.861, tra la cresta frastagliata del Kanchenjunga e il più modesto Simvo (6.811 metri). La giornata era limpida e pulita, la visibilità perfetta. Attraverso le lenti del binocolo ,la pista mostrava un'ampia deviazione proprio sotto il colle, così che, tagliando in linea retta verso il nevaio, gli inseguitori avevano la possibilità di guadagnare almeno un'ora sulla loro preda. Il calcolo era giusto, tanto giusto che, a un certo momento, la coppia degli esseri misteriosi entrò in zona visiva. Ora la difficoltà era rimuovere la cappa di terrore che sembrava essere calata sugli sherpa, quasi paralizzandoli. Assolutamente non avrebbero mosso un altro passo in quella direzione. In questi casi il solo rimedio è dare nome alla paura, classificarla, guardarla in faccia. Così Thorberg porse ai due nepalesi il proprio cannocchiale da campo perchè dessero un'occhiata alle 'cose' che si muovevano là in alto sulla neve. Non sappiamo se le loro mani tremassero reggendo l'oggetto che 'trasportava' la visione a pochi metri, come se potessero toccarla stendendo la mano. Ma l'avvistamento doveva essere netto e preciso perché, in capo a un lungo momento, parvero rilassarsi e respirare più liberamente. «Sahib - dissero - sono proprio scimmie!» "Ora anche gli sherpa battevano la pista con lena. Si trattava di disporre un piano d'accerchiamento: meta la cresta della montagna, passaggio obbligato di quei due scorridori dei ghiacci. Thorberg con uno sherpa cercherà di sopravanzare la coppia dei bipedi pelosi, mentre Frostis, con altri due, si disporrà in modo da sbarrare le vie della ritirata. "Il piano riesce perfettamente. Sbucati da un avvallamento, Thorberg e il suo compagno si trovano di fronte a due esseri che immediatamente si ergono in tutta la loro statura. «Lunghissimi peli bruni coprivano completamente i loro corpi, ma non il viso che era nudo. Ciglia folte e cespugliose spiovevano fino a metà dei loro occhi. La corporatura era quella di un uomo di taglia robusta. La coda pelosa sembrava avere la funzione di un contrappeso o quella di un organo di direzione.» Così apparvero i due yeti a Thorberg. Ma non era il momento delle descrizioni accurate. Si trattava di stringere il cerchio e d'ingaggiare battaglia perché tutto lasciava credere che ci sarebbe stata una lotta. Per nulla intimoriti, gli yeti avevano assunto un atteggiamento paurosamente aggressivo. Digrignando i denti che avevano lunghi e gialli, emettendo grugniti e suoni inarticolati, i due bestioni tenevano fronte all'attacco concentrico rivolgendosi di volta in volta a questo o a quell'uomo con zampe minacciose e balzi felini. Ed ecco che Frostis punta la sua carabina, ma Thorberg gli fa cenno di non sparare. 'è ancora la possibilità di fare centro pieno: catturarne uno vivo. Febbrilmente toglie dallo zaino la corda da montagna e la srotola, ne fa un cappio, simile al laccio dei cow-boy, e tenta di farlo calare sulla più vicina delle scimmie gigantesche. Rapida come il lampo, la bestia afferra la corda al volo e per un attimo due occhi umani e due occhi disumani si fissano lungo quell'esile cordone che sembra unirli in chissà quali abissi del tempo. Frostis si distrae? Ha un attimo di esitazione? O l'aggressione si è svolta con velocità imprevedibile? L'altro yeti gli è addosso prima che possa servirsi del fucile, lo travolge, lo rovescia sulla neve. La difesa del norvegese è debole, impacciato com''è dagli sci che si sono incrociati e dal peso dell'animale che grava su di lui. Sente la giacca a vento lacerarsi e un dolore bruciante alla spalla: i denti del mostro hanno trapassato tutti gli abiti e hanno morso a sangue. Thorberg ha lasciato l'inutile corda e si tiene pronto a sparare, ma quei due, sulla neve, formano un groviglio in cui è impossibile inquadrare il bersaglio giusto. Ma qualcosa deve fare, anche perché l'altro yeti sembra ripetere le gesta del suo compagno su uno degli altri quattro uomini E Thorberg spara. La fucilata rimbomba come un tuono, ripercossa da cento echi paurosi. Colpito, lo yeti si dà alla fuga perdendo sangue, subito imitato dal compagno che ha finalmente abbandonato la sua vittima. In breve, le due bestie scompaiono alla vista degli uomini che, dal canto loro, hanno altro da fare che pensare a un inseguimento. Frostis giace infatti nella neve con una spalla lacerata. Geme e perde molto sangue. È Brahmaputra Biharo, che ha nello zaino la piccola farmacia da campo, a disinfettare e a tamponare la ferita. "il tramonto di quella giornata vedeva un drappello di quattro uomini rientrare al campo base sorreggendo una rudimentale barella in cui giaceva Frostis, in preda alla febbre e con i primi sintomi di un'infezione che si sarebbe aggravata nei giorni successivi e che fu vinta soltanto con l'impiego massiccio della penicillina. Tuttavia i postumi di quel malanno avrebbero consigliato più tardi nuove cure somministrate prima durante una sosta a Lachen, nell'alta valle del Tista e, infine, all'ospedale di Darjeeling."
Se questo episodio è vero, così come ci è stato narrato, allora bisogna dire che esso costituisce un tipico esempio di come l'uomo non dovrebbe accostarsi ai segreti della natura. Vi possiamo vedere, infatti, come in filigrana, tutta la mancanza di rispetto, la sfrenata volontà di dominio, la filosofia scientista che tutto giustifica in nome del proprio 'progresso': e, come logica conseguenza di tali atteggiamenti mentali, l'uso spregiudicato della violenza. Il fucile e la corda per catturare lo Yeti divengono allora il simbolo di quell'antropocentrismo senza senso del limite e senza rispetto per il mistero che accompagna l'idea evolutiva del sapere come inevitabile avanzata verso le magnifiche sorti e progressive, e della quale la manipolazione assoluta dell'esistente è la manifestazione pratica. Non così l'uomo deve avvicinarsi ai segreti della natura; non con una volontà di dominio che esclude ogni forma di compassione verso i viventi, ma con una sete di conoscenza che sappia accostarsi agli enti con umiltà, rispetto e compartecipazione: ossia con la consapevolezza che siamo tutti parte di un delicato ma armonioso disegno cosmico.
|