Il Disco di Nebra: sicuramente un titolo
accattivante e che incuriosisce già di per sé, in
quanto richiama alla mente uno dei reperti più
misteriosi e particolari rinvenuti nel secolo
scorso. Il disco, infatti, esiste davvero e sono
infinite le teorie e le leggende che, fin dal suo
ritrovamento, lo hanno avuto come protagonista.
Miriadi di articoli, dissertazioni, fantasiose
interpretazioni, accademiche letture simboliche...
e, tuttavia, niente che si possa paragonare al
nostro romanzo.
Ma procediamo con ordine…
«L’esplosione fu superiore a ogni altra e le fiamme
guizzanti sul bronzo formavano un grande fiore
bianco, giallo e rosso.
“Brucia!” esclamò Isabella Doria, stringendo la mano
che cercava la sua, mentre nella piazza la folla
rumoreggiava ondeggiando in ogni direzione».
Questo l’incipit del testo di Giovanni Nebuloni:
coinvolgente, cinematografico e volto, sin dal primo
momento, a catturare l’attenzione del lettore
attraverso un espediente tipico dei migliori film
d’azione, il colpo di scena. È come se l’ambiente
fosse ripreso attraverso una telecamera e, dal primo
dialogo con cui si apre la narrazione, percepiamo lo
stato di confusione generale, smarrimento e, a
tratti, anche paura che ha inevitabilmente invaso la
piazza. Ci sembra di sentire le urla e noi stessi
non vediamo l’ora di capire e sapere cosa sia
successo davvero e quali ne siano le conseguenze: il
Duomo di Milano (l’oggetto dell’attentato infatti è
niente meno che la celebre cattedrale meneghina) è
tutto intero? In realtà l’avvenimento non è altro
che una scusa per “arpionare” il lettore, in quanto
il vero cuore della vicenda sarà svelato solo più
tardi.
L’antefatto reale: il ritrovamento
Nebra, nei pressi del monte Mittelberg: siamo
nell’estate del 1999 quando viene scoperto un
reperto particolarissimo, il Disco di Nebra. Molto
antico, un disco di bronzo di forma quasi circolare
decorato con lamine d’oro e risalente a più di 3600
anni fa. Si tratta probabilmente della più antica
rappresentazione del cosmo conosciuta nel continente
europeo. Molti studiosi ritengono che riproduca
l’immagine tipica di un cielo notturno, nel quale è
volutamente enfatizzata, come unica costellazione,
quella delle Pleiadi. Inoltre, si è notato che la
mappa celeste che vi è raffigurata richiama anche la
rappresentazione del firmamento posta al centro
dello scudo di Achille di cui ci narra Omero nel
XVIII canto dell’Iliade. Tuttavia, come
sempre in questi casi, i tentativi di interpretare
compiutamente il misterioso messaggio che sembra
potersi celare nel singolare reperto sono stati
numerosi e non c’è ancora – e forse non ci sarà mai
– un totale accordo tra gli studiosi.
Come se tutto ciò non bastasse a creare un’aura di
mistero attorno al Disco di Nebra, poco tempo dopo
il suo rinvenimento, ecco un’altra casuale
strepitosa scoperta a pochi chilometri di distanza e
altrettanto fuori dal comune. Stavolta siamo a Gosek,
nello stato tedesco orientale della Sassonia-Anhalt.
Qui, nel settembre 2002, viene rinvenuto uno dei più
antichi osservatori astronomici mai dissotterrato.
Anzi, dalle analisi condotte sembrerebbe si possa
collocarne la fondazione in un periodo compreso tra
il 5000 e il 4800 a.C., datazione che lo renderebbe
il più antico osservatorio astronomico europeo. Ad
ogni modo non è solo l’antichità che rende Goseck un
luogo particolare, ma anche la sua collocazione che
è insolita e il fatto che, paragonato agli altri
circa duecento siti preistorici simili sparsi per
l’Europa, ciò evidenzia sorprendenti deviazioni
rispetto a quanto finora noto.
È proprio in questi luoghi magici e misteriosi che
ci troviamo catapultati quando ci addentriamo nella
lettura de Il Disco di Nebra. Veniamo
inconsapevolmente proiettati in un mondo fatto di
mito, storia, pulsioni istintive e incontrollabili,
che affondano le proprie radici in un passato
lontano, irraggiungibile e, a tratti, quasi arcano.
L’autore milanese Giovanni Nebuloni non è nuovo a
tale genere sperimentale in cui unisce varie
soluzioni narrative creando un originale mix che
fonde azioni, sentimento, esoterismo... Come ne
La polvere eterna, suo precedente romanzo
pubblicato nella collana La scacchiera di Babele
della inEdition editrice, anche in quest’opera ci
troviamo di fronte ad una narrazione dal ritmo
veloce e, talvolta, quasi sincopato.
La storia di una stirpe
A questo punto, è d’obbligo un breve anticipo circa
le vicende narrate e, se le visionarie
rappresentazioni che la caratterizzano non sono
assolutamente riassumibili, si può però accennare
brevemente alla trama. La storia si dipana
cronologicamente in soli tre giorni e una notte, o
meglio, una notte, quella dell’ultimo dell’anno, e i
tre giorni successivi.
Siamo subito trascinati, come in un vortice, a
spasso per i continenti e le menti. Sì, proprio le
menti, infatti il racconto è condotto come se il
lettore potesse proiettarsi di volta in volta dentro
i singoli personaggi ed essere un tutt’uno con loro.
In questo modo chi legge si trova a guardare con gli
occhi di chi agisce, a provare di volta in volta le
sue sensazioni e a essere psicologicamente
protagonista delle reazioni diverse che ogni
“attore” prova di fronte ai singoli avvenimenti in
cui viene coinvolto. Viene meno la dimensione di
lettore esterno, in quanto si ha la possibilità di
entrare nel libro attraverso i personaggi. Così, la
realtà si deforma e si è trascinati in un mondo
tecnologicamente più moderno e avanzato, fatto di
microchip e armi laser, talvolta ai limiti della
fantascienza, ma contemporaneamente si è anche
catapultati indietro nel tempo, nei millenni
passati. Ci ritroviamo a leggere della cultura dei
tumuli, del mito pelasgico della creazione, o dei
faraoni dell’antico Egitto e dei gemelli Hunapù e
Xbalanqué, progenitori della popolazione maya.
Il romanzo narra le vicende legate al recupero del
Disco di Nebra da parte dei discendenti dei suoi
creatori, una stirpe le cui origini risalgono
indietro fino a tempi remoti. È Costas Molivatis, il
rappresentante del ramo meridionale, che ci racconta
brevemente la loro storia:
«[…] iniziata dalla cultura dei tumuli, la cultura
Kurgan fiorita nel settimo millennio avanti Cristo,
dalle steppe della Russia meridionale si era
sdoppiata, salendo in parte allo stretto di Bering
per raggiungere l’America Centrale e in gran parte
scendendo a sud per fondare, nella Turchia
orientale, la città di Catalhoyuk. Ovvero
l’insediamento umano più antico da dove, un migliaio
d’anni dopo, la nutrita colonia suddivisasi ancora
una volta, era partita per scoprire e sfruttare
nuove terre. Una parte si era stabilita nell’Egeo
spingendosi fino all’Egitto, l’altra invece si era
fermata in Germania, a Gosek e dintorni».
È sempre Costas a narrarci che dalla stirpe il disco
è sentito come un regalo fatto loro da Dio, quel Dio
che è anche responsabile dei sogni e in particolare
di quello che hanno fatto sia lui che la
rappresentante dell’altro ramo principale della
stirpe, Sonja Üttner, la sua perenne antagonista,
che lo definisce con tutto il disprezzo possibile:
«mio fratello fra virgolette».
Nel sogno sono racchiusi tutti i personaggi e gli
avvenimenti che saranno poi sviluppati nel romanzo,
sono come semi di tulipano racchiusi in un
sacchetto, potenzialmente fiori, ma non sappiamo
ancora di quale colore. Allo stesso modo, il sogno
prefigura tanti scenari che però risultano essere
ancora ignoti nel loro dipanarsi e, dunque, ancora
incomprensibili per il lettore. Alla fine però, il
misterioso messaggio con cui si chiude il sogno
suona come un’ineluttabile profezia e, allo stesso
tempo, come un’investitura destinata a tutti i
membri della stirpe.
«Poi, le parole in sogno sentite soltanto, ma come
scolpite sopra al Disco, bianche e pesanti contro un
firmamento blu scuro e senza stelle.
“Le parole che è come se mi si fossero scritte sulla
fronte” disse Costas, guardando il soffitto e
rivedendole lì sopra:
Il Disco, summa delle nostre conoscenze
deve essere portato dove sai,
con la prua della nave rivolta
verso la culla del sole.
Le due anime torneranno unite
e il tempo sarà prospero».
Sarà proprio questa missione, rientrare in possesso
del disco a ogni costo, il motore dell’intera
vicenda che coinvolgerà e sconvolgerà la vita non
solo dei membri della stirpe, consapevoli della loro
appartenenza a tale élite e del loro compito, ma
anche l’esistenza di altre persone ignare delle
proprie origini, prima fra tutte Isabella, ventenne
studentessa milanese, la sua amica Laura e il suo
ragazzo Marco, per non parlare del povero poliziotto
Francesco Dalessio. Ugualmente, dall’altra parte
dell’Europa, verrà turbata anche la vita del russo
Ivan Ivanovich Buran e della sua donna, Ludmila
Yevgenyevna Denissienko, e quella di tanti altri.
I personaggi come riflessi del disco
Il romanzo si svolge ai giorni nostri, ma in un anno
imprecisato, e la vicenda si sviluppa tra Italia,
Russia, Grecia e, soprattutto, vari luoghi della
Germania tutti legati al disco che rimane sempre il
filo rosso che lega i numerosi avvenimenti e i tanti
personaggi in cui ci si imbatte nel corso della
narrazione. Inizialmente ci vengono presentate più
situazioni che, alla fine, verranno a convergere
trovando un punto d’incontro e una spiegazione del
loro accadere nel disco stesso.
È interessante notare come l’autore riesca a
delineare i suoi personaggi: alcuni di loro sono
caratterizzati da un desiderio più o meno
consapevole e più o meno spasmodico di possedere il
disco, altri invece se lo ritrovano sul proprio
cammino come un’imprescindibile componente della
loro esistenza e si può percepire tale differenza
già attraverso la loro reazione quando ne parlano.
Ciò è particolarmente evidente se si presta
attenzione alla scelta dei singoli termini che
ognuno di loro utilizza per riferirsi al disco.
Ai due estremi opposti ci imbattiamo da un lato in
Sonja Üttner, per la quale ha un vero e proprio
valore “umano”:
«“Lo chiamo Lui da ora” affermò Sonja. “Lui,
come la Bibbia è Il Libro”.
“Il Disco di Nebra sarebbe un uomo?!” esclamò la
spagnola.
“Potrebbe essere affine o assimilabile a una
persona” chiarì Sonja».
E dall’altro Ivan Ivanovich Buran, che, invece,
sembra essere totalmente disinteressato rispetto a
questo oggetto:
«Fra le fronde di un bosco, chino sulle punte dei
piedi, “Disco di Nebra?” bisbigliò Ivan.
Dalla punta di spillo ricetrasmittente nell’orecchio
gli chiesero se volesse conoscere qualcosa del Disco
di Nebra.
“No” rispose Ivan. “Nebra? Perché?”».
Ognuno è contraddistinto dalle proprie parole e
dalle proprie reazioni. Tuttavia, uno degli aspetti
più interessanti che possiamo cogliere a una lettura
più attenta e puntuale è che tutti coloro che
incontriamo nel corso della storia, sebbene ne siano
ignari, rispecchiano un elemento fisicamente
presente nel disco stesso, che diventa così non solo
il punto di origine dell’intera vicenda, ma anche la
sua sintesi.
Una donna-regina e gli altri
Sin dall’inizio incontriamo Isabella, Isabella
Doria, uno dei principali personaggi del romanzo,
colei che forse ci potremmo azzardare anche a
definire la protagonista de Il Disco di Nebra,
della quale possiamo fare la conoscenza in modo più
approfondito attraverso gli occhi di altri due
personaggi…
Il primo è il suo moroso, Marco Tindari, che di
Isabella rappresenta quasi un alter ego maschile:
hanno lo stesso di enne a, sono – come dirà
poi Sonja – quasi uguali se non identici nella
sostanza, sebbene con forme diverse, e sarebbero
dovuti diventare una cosa sola.
«A Milano, su un bus diretto verso Sesto San
Giovanni, aveva adocchiato una ragazza più che
stupenda, a una prima occhiata non sembrava neanche
carina perché bella come il mare e il sole assieme.
Era il ventuno di dicembre e la ragazza
diciassettenne, dagli occhi obliqui verdi e blu da
tigre o leone, indossava jeans color verde
petrolio».
Il secondo prescelto per questo breve “percorso di
conoscenza” è invece un “uomo qualunque”, è
l’ispettore capo della questura milanese Francesco
Dalessio.
«Isabella annuì e, sedendo di fronte a lei,
Francesco non poté fare a meno di osservare che,
senza un filo di trucco, il volto della ragazza era
ancor “più divino” di come lo ricordasse.
I capelli di seta nera lunghi fino alle spalle e un
poco mossi lasciavano intravedere orecchie senza
lobo. Gli occhi verdi, marroni, azzurri e blu
piegati in alto verso l’esterno del viso erano gocce
di stelle sormontate da sopracciglia che, spesse al
centro, sfumavano sulle tempie in sottili quarti di
luna. Il naso guardava in su e le narici non erano
piccole. Gli zigomi pronunciati erano vigili sopra
guance appena incavate e la bocca era carnosa e a
cuore, ma allungata, da sé un regno.
Il labbro inferiore andava sovente a inumidire
quello superiore e vi sarebbe stato da perdersi poi
nella scollatura, nel seno figurabile sotto la
camicia azzurra sciolta fuori dai jeans bianchi e
fra le gambe che si potevano intuire.
Ci si doveva però fermare al collo, i cui muscoli
laterali e a fior di pelle [...] erano serpenti non
velenosi».
Da subito non possiamo fare a meno di intuire che
quella di Isabella è indubbiamente una personalità
magnetica e presto ci accorgiamo che è destinata in
maniera ineluttabile a dominare gli altri. Questa
sua condotta però non è volontaria, ma indiretta;
nel senso che tutti coloro che la incontrano,
istintivamente non possono più sottrarsi al suo
fascino e non riescono più ad agire senza che la sua
calamitante immagine invada i loro pensieri. È un
sentimento che colpisce inevitabilmente e
indistintamente uomini e donne. Ha questo effetto su
Marco e Francesco, tuttavia lo avrà anche su Sonja,
e decisamente non sarà meno intenso. Anzi la
duchessa la riconoscerà come regina della stirpe e,
nemmeno lei, sarà immune dal provare una potente
attrazione fisica per la ragazza milanese. Inoltre
ci informerà che Isabella gode della stessa
considerazione anche da parte di entità superiori,
infatti in un passo le dice che anche le Dame
Bianche che sono in lei affermano che è la loro
regina.
Se Isabella ha un ruolo così centrale e, allo stesso
tempo, di “presenza costante” durante tutto il
romanzo, non possiamo certo sottovalutare le altre
donne che compaiono ne Il Disco di Nebra. Si
tratta sempre di personalità forti e comunque, anche
quando apparentemente rimangono solo sullo sfondo,
con un ruolo decisivo per lo svolgersi della
vicenda. Abbiamo una carrellata di tante figure e
tanti modi di essere donna, ancora una volta tutti
diversi, ma tutti caratterizzati da un elemento in
comune: la propria natura umana. Troviamo così Sonja,
la guida del ramo nordico della stirpe; Laura
Chimenti, l’amica del cuore di Isabella; Marlene
Rommell, la donna del figlio di Sonja; Ludmila, la
donna (poi donna virtuale) di Ivan; la fedele moglie
di Costas, la sua Pleiade; le magiche e
soprannaturali Dame Bianche… Affiancati a queste
potenti e forti figure gli uomini, Marco, Francesco,
Ivan, Costas, Eginhard… che controbilanciano, o
almeno cercano di farlo, le forze della natura al
femminile con le quali incrociano il loro destino.
Tante possibili chiavi di lettura
Certamente il libro di Nebuloni si può leggere a
molti livelli e, sotto l’avvincente trama d’azione
che a una prima e semplice lettura ci trascina entro
tale mondo tumultuoso e vagamente surreale,
riscontriamo una fitta rete di correlazioni e una
miriade di possibili interpretazioni parallele dei
singoli avvenimenti e personaggi. Ne basti una per
tutte. Pensiamo solo a Marco e Francesco, così
diversi, eppure entrambi innamorati della stessa
donna, Isabella, e contrassegnati da un neo sul
volto. Questa caratteristica in realtà segna e
distingue molti rappresentanti della stirpe, anche
se l’ispettore non sembra essere riconosciuto da
loro come un fratello e la stessa Isabella ne ha
uno. Ad ogni modo il neo, oltre ovviamente
all’attrazione per la protagonista, non è l’unico
elemento che possiamo segnalare come legame tra i
due, anzi… Marco, 23 anni, e Francesco, 32; entrambi
italiani, hanno un’età le cui cifre che la
compongono sono due e tre, nessuno di loro, alla
fine, riuscirà a coronare il proprio amore e, tanto
l’uno quanto l’altro, moriranno vittime della
stirpe.
Questo è solo un piccolo assaggio dei legami
reconditi che si possono rintracciare tra i
personaggi che popolano il romanzo e che sono alcuni
umani, altri no. Ne incontriamo di magici e
misteriosi, come le fantastiche Dame Bianche che
circondano Sonja quando si reca al cimitero del
castello, o di terrificanti, come i demoni in mezzo
ai quali, sebbene inconsapevolmente, si trova Ivan
quando viene accerchiato dai lupi mentre è alla
ricerca della grotta dei cervi.
Man a mano che la storia procede, i nostri
personaggi sembrano perdere i connotati umani per
avvicinarsi sempre più al mondo animale, tanto che
alla fine stridono, belano, gorgheggiano e
gracchiano. Parallelamente si fa sempre più forte il
rapporto che lega Isabella alla terra e più
precisamente alla terra della sua stirpe. Il
romanzo, infatti, si potrebbe leggere anche come un
percorso iniziatico alla scoperta di sé e della
proprio natura, che Isabella percorre dall’inizio
quando, subito dopo l’attentato, incontra il
misterioso uomo del «Tu sai chi sono» che la
porta a interrogarsi, fino a quando, venuta a
conoscenza della stirpe e del Disco attraverso Sonja,
dimostra tutto il proprio attaccamento per la nuova
dimensione di cui è entrata a far parte fino a
rifiutare l’invito di Ivan a seguirlo affermando di
voler rimanere in Germania perché:
«[…] quel luogo era la sua casa. Raccolse un poco di
terra fra le dita e se la portò fra le labbra. La
deglutì e osservò che non era insipida e che non
sapeva di mare.
“Qui è la mia casa” ribadì».
Valentina
Conti, Un mosaico in perenne movimento,
Introduzione a Il Disco di Nebra di
Giovanni Nebuloni, inEdition editrice