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FIGLI DI UN DIO CELTICO
di Antonio Bruno
Partendo dall'assunto che è un grave errore culturale, filosofico e storico ritenersi portatori e rappresentanti di filosofie a compartimenti stagni nelle quali negare sprezzantemente i reciproci apporti che, invece, proprio gli eventi storici rendono inevitabili fra le culture, sono assolutamente convinto che il patrimonio spirituale dell'uomo moderno, per quanto sostanzialmente sepolto nel suo inconscio ed abbagliato dai bisogni dell'immediato, sia il punto d'arrivo, buono o brutto che sia, di un lungo percorso al quale hanno contribuito tutti i popoli, tutte le civiltà, conosciute e sconosciute. Percorso del quale, ad ogni modo, sopravvivono istanze, rituali, usanze e tradizioni sostanzialmente simili e basilari. Il Celtismo, qualunque cosa sia stato, è parte del nostro passato e non ha alcun senso né storico né filosofico né antropologico ritenersi "figli" di altre culture e di altre filosofie. Il cosiddetto "Capodanno Celtico" o festa di Shamain, ad esempio, era l'espressione, fondamentalmente, di un patrimonio di conoscenze e convinzioni spirituali o magiche remoto forse già a quei tempi. Non è, infatti, solo delle terre del Nord Europa o dei paesi anglosassoni celebrare la ricorrenza dei defunti il 31 ottobre o il primo giorno di novembre ma anche di altri popoli che, a seguire le teorie di chi vorrebbe separare le culture col filo spinato dei nozionisti, non dovrebbero condividere nulla di tutto ciò. Solo per fermarci all'Italia, ricordiamo che nei paesi del Sud vi era l'usanza, che si perde nella notte dei tempi, di banchettare, festeggiare e riunirsi sulle tombe o nei cimiteri proprio in quella data. Di certo non si tratta di una coincidenza. C'è qualcuno che, ancorato a concezioni proprie di una storiografia ormai superata da decenni, pensa ancora che tutto ciò che possiamo sapere sui Celti risalga a quanto avevano detto di loro Greci e Romani, che non sempre li conoscevano direttamente o che li avevano combattuti. Sarebbe come chiedere agli Armeni che tipo di uomini siano i Turchi o ai Sioux quali qualità abbiano gli americani. In seguito, però, le nostre conoscenze hanno fatto dei progressi e, solo per citare l'archeologia, gli scavi hanno portato alla luce la statura religiosa gallica dell'epoca romana e hanno rivelato, inoltre, il mondo e la cultura del periodo più luminoso della storia celtica, cioè quello della Gallia indipendente, conosciuto con il nome di civiltà La Tène. Ci sono giunti, poi, gli echi della sorprendente letteratura irlandese e gallica del Medio Evo, che fu il riflesso diretto della misteriosa e complessa cultura dei Celti. Non esistono documenti scritti, è vero, ma abbiamo ormai a disposizione numerosi elementi di valutazione per affermare che, pur non scrivendo nulla di questioni spirituali, i Celti pensavano che il sentimento religioso o poetico, o meglio poetico-religioso, fosse troppo legato all'interiorità dell'uomo per poter essere fissato nella scrittura senza una grande perdita. Scrivevano su tavolette, magari in caratteri greci, il numero delle derrate e dei buoi, ma non i sogni che turbavano le loro notti. Nell'Alto Medio Evo, i monaci irlandesi che hanno messo per iscritto le saghe del loro popolo nelle "scriptoria" o nelle biblioteche dei monasteri, hanno saputo abilmente eliminare i riferimenti troppo espliciti alle divinità e alle credenze pagane. Bisogna allora saper leggere tra le righe e guardarsi dall'insidia dell'"evemerizzazione" (da Evemero, filosofo greco del III sec. a.C. che riconduceva il sacro alla storia degli eroi), che riduce un popolo mitico ad una migrazione storica o un dio risplendente a un eroe dotato di poteri magici. isogna inoltre riconoscere definitivamente che la concezione del mondo propria dei Celti non ammette le nozioni di "categoria" e di "specializzazione". L'Olimpo celtico è ambiguo, come anche l'arte; la società, la morale, il carattere stesso dei Celti presentano degli aspetti contraddittori che, però, bisogna ben guardarsi dal farne le pezze d'appoggio per conclusioni generalizzanti e raffazzonate su, per esempio, la "crudeltà" dei Celti, la loro "violenza", "inciviltà", ecc... Questa civiltà sfugge alle definizioni troppo nette perché si regge sui contrasti e perché inoltre essa, per scelta e per definizione, è la civiltà di un popolo poco aggregato in forme di vita associative. Si può parlare, forse, di una sorta di "individualismo" celtico, per riprendere un'espressione dello studioso Oliver Launay in "La civiltà dei Celti". Ma di un individualismo ambiguo, in quanto racchiuso strettamente nella doppia cornice protettiva della famiglia e della tribù. Incondizionato è, poi, il rispetto del costume e della tradizione verso i legami di sangue. I Celti sono arrivati in Europa, nel corso dell'ultimo millennio prima della nostra era, per occupare un territorio che per decine di secoli era stato lavorato dai contadini del neolitico con strumenti di pietra e di legno, con dura fatica. Essi non l'hanno molto cambiato, edificandovi la loro società. In molte zone d'Europa, i Celti hanno istituito una civiltà agricola e silvestre, che non era quella dei selvaggi vestiti di pelli di animali che dormivano in grotte o sugli alberi, ma quella di contadini industriosi che avevano saputo organizzare e perfezionare il loro modo di vivere senza costruire città. Si dedicavano a calcoli di superficie. I termini francesi "arpent" (Jugero) e "lieue" (lega) deriva dalla loro lingua (arepennis, leuga). I Druidi erano il cardine della civiltà Celtica, amavano l'armonia e costituivano il contrappeso indispensabile agli istinti bellicosi della classe militare. La parola "druido" significa "molto saggio". Non abbiamo testi che riassumano l'insegnamento dei Druidi, ma sappiamo che esso era riservato agli allievi delle loro scuole, specie di seminari agresti, lontani dalle agitazioni del mondo e frequentati soprattutto dai figli dell'aristocrazia. Cathbad, il grande leggendario Druido, aveva un centinaio di alunni di cui "otto avevano assimilato la scienza druidica", il che sta a testimoniare che la maggior parte preferiva i piaceri della caccia e dell'amore allo studio. La visione della vita che i Celti acquisivano per merito di questo insegnamento, l'assenza di paura della morte e dell'aldilà non si spiegherebbero senza una credenza radicata nell'immortalità dell'anima e nella possibilità per l'uomo di conoscere le forme di esistenza più diverse. Infatti il loro amore per la vita in tutte le sue manifestazioni, la loro apertura verso tutte le esperienze rivela il loro senso dell'unità del cosmo, più di duemila anni prima che la scienza moderna, pur con tutte le sue tecniche, fosse anche solo in grado di accertarla. La religione celtica aveva due livelli: uno esoterico, riservato, ed uno popolare. Se inizialmente ci si è interessati dei Celti soprattutto a livello scientifico, si è gradualmente scoperto che c'è in ognuno di noi un po' di Celta dal momento che ogni uomo si sente oggi danneggiato, nella sua intima natura, dai guasti prodotti dal progresso cieco e frenetico del nostro tempo. La civiltà celtica appare, con altre, la prova dell'esistenza di un'epoca in cui gli uomini erano immersi nella natura ed erano essi stessi natura. E noi ci sentiamo profondamente coinvolti, dal momento che quelli erano i nostri antenati. Altro che filosofi Greci e Romani! Un tempo, i Normanni salvarono dall'oblio e fecero conoscere al mondo la leggenda di Re Artù, dopo averla legata alla propria tradizione. I Romanzi bretoni sono stati l'anima della cavalleria. Per una seconda volta, all'inizio del Romanticismo, i fantasmi delle leggende celtiche hanno popolato le fantasie di scrittori ed artisti. Oggi, sono certo che l'immagine di questa società dimenticata, che alcuni vorrebbero rinnegare, influisce ancora su alcuni modi di pensare e può schiudere la prospettiva di nuove vie al nostro spirito stanco di abbagli scientisti o consumistici. Conosco una persona, che è convinta di saperla lunga sui Celti e sulla storia d'Europa (oltre che su tante altre cose) e che ha descritto così i Celti: "Erano poveracci che vivevano nel letame ed erano quasi esclusivamente impegnati a unire il pranzo alla cena..." A tali deplorevoli amenità, preferisco rispondere con un passaggio delle "Ballate Ossianiche", Duanaire Finn: "Il cervo dell'Est non dorme e non smette di bramire; sebbene sia nel boschetto dei merli, non ha voglia di dormire. La cerva non dorme e geme per il suo piccolo maculato, corre in mezzo ai cespugli. Questa notte il gallo della brughiera non dorme nelle lande battute dal vento della collina; dolce è il suo grido chiaro; non dorme in mezzo alle raffiche. Dormi un poco, dormi un pochino, perché tu non devi temere nulla al mondo, o Diarmaid, o figlio di O'Duibhné, o mio amore!"
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